Politica

Lo 007 Contrada: incastrato da falsi pentiti

Gianmarco Chiocci

nostro inviato a Palermo

Trentuno mesi di carcere preventivo, una condanna a 10 anni in primo grado, assolto in appello, la Cassazione che annulla con rinvio.
Dottor Bruno Contrada, siamo alla resa dei conti. La camera di consiglio sta per riunirsi per l'ultimo processo…
«Proprio così. Sono stati quattordici anni d'inferno ma non ho perso la voglia di lottare e la fiducia in questo Stato».
Che idea si è fatto del caso-Contrada?
«La mia è la storia di un uomo delle Istituzioni che dopo 40 anni di servizio si sente dire da quello stesso Stato: hai servito l'Antistato. E ciò senza rendersi conto che accusando me accusa tutti i poliziotti che per 40 anni non si erano accorti di nulla».
A distanza di 14 anni si è fatta un'idea vera di come nasce davvero la sua storia?
«Ce l'ho, ce l'ho... Una premessa: il giorno dopo la bomba in via D'Amelio, il neoprocuratore capo di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, mi convoca e mi chiede di collaborare con lui nelle indagini sulle stragi. "Lei ha un'esperienza di lotta alla mafia come nessun altro, ci aiuti a trovare gli assassini di Giovanni e Paolo". Risposi che mi sentivo onorato. Ma mentre lavoravo per lo Stato, c'era chi lavorava contro di me… ».
E cioè?
«Il pentito Gaspare Mutolo aveva detto qualcosa su di me a Borsellino, che non gli credette. Più avanti, ad ottobre, Mutolo fece il bis prima alla Dia e poi con altri magistrati di Palermo. Contestualmente girò la voce di un ufficiale dei carabinieri che aveva riferito a un pm che io ero stato visto in via d'Amelio, immediatamente dopo l'esplosione della bomba, ed ero stato identificato da una volante della polizia. Bene. Io quel 19 luglio 1992 non ero in via d'Amelio né sulla terra ferma perché mi trovavo in alto mare, su una barca di un amico con 10 persone (compresi due ufficiali dell'Arma) che l'hanno confermato al processo! Questa bugia è durata anni ed è passata anche nel film di Ferrara con un attore mio sosia. Fu un tentativo di coinvolgere i Servizi, parlando di depistaggi inesistenti, tirando in ballo l'unica persona che si sapeva appartenere al Sisde. Ci hanno provato anche con Mori e Ultimo. E adesso ci risiamo».
Cosa vuol dire?
«Leggo di una nuovissima inchiesta sui misteri dell'agenda di Borsellino che sarebbe scomparsa dopo l'attentato. Ancora ipotesi dietrologiche… ».
Chi altro avrebbe puntato dritto su di lei?
«La Dia, che nasceva in quel tempo come corpo di polizia alle dipendenze delle procure antimafia. Non gradiva il fatto che mi ero impegnato a creare una branca, nel Sisde, dedicata specificatamente a Cosa nostra. La Dia si è specializzata nella gestione di determinati pentiti. Prendiamo Giuseppe Marchese arrestato nel 1982 a cui dopo dieci anni di galera, con ergastoli definitivi, gli si prospetta d'uscire attraverso una collaborazione. Lui accetta subito. E nel giro di un mese, ad ottobre 92, cambia versione su un fatto confermato da altri pentiti come Brusca e Di Maggio. E cioè che non era vero che Riina scappò dal covo perché la cosca avversa l'aveva individuato, ma perché io avevo spifferato a Riina che la polizia stava per fare una perquisizione che, s'è scoperto poi, non c'è mai stata. Ecco, il mio processo è costellato di pentiti così. C'è Mannoia, che tace per 5 anni poi improvvisamente si ricorda di me. C'è Spatola le cui dichiarazioni servono per arrestarmi, che poi ritratta e racconta di come gli investigatori facevano incontrare i pentiti per concordare le accuse. C'è Cangemi che afferma che sono un accanito giocatore d'azzardo, quando cento testimoni lo smentiscono. Ma più che i pentiti a farmi male sono stati alcuni personaggi dell'amministrazione in cui ho prestato servizio, gente squalificata. Perché sa, quando si ferisce un uomo e lo si lascia in terra sanguinante, poi arrivano gli avvoltoi. Ecco. Alcuni colleghi, per carriera o per altro, hanno approfittato dell'occasione e hanno contribuito a distruggermi. Queste persone meritano disprezzo».
Si è detto e scritto dei suoi pessimi rapporti con Falcone e Borsellino?
«È falso. Erano buoni ma limitati nel tempo perché poi dalla polizia nel 1982 passai ai Servizi. Non ero più un ufficiale di polizia giudiziaria».
L'ex giudice Caponnetto racconta che Falcone, dopo averla interrogata le strinse la mano e quando lei uscì dalla stanza, se la passò sui pantaloni per pulirsela.
«Questa storia se l'è inventata Caponnetto. Il processo l'ha dimostrato: non ci fu mai una verbalizzazione che vedeva presenti insieme me, Falcone e Caponnetto. La verità è nelle carte processuali che oltre a me conosce solo il pm Ingoia che mi ha dedicato cinque anni della sua vita, come Dante Alighieri con Beatrice».
Si è scritto che lei appartenesse alla massoneria deviata.
«Solo perché in un'agenda hanno trovato il nome di un poliziotto che apparteneva lui alla P2, non io, e a cui inviai un telegramma per la morte del figlio. Poi ne parla anche Spatola, ma siccome non hanno trovato uno straccio di prova, in sentenza hanno scritto che aveva comunque ragione il pentito perché non essendo stata trovata la loggia voleva dire che era segretissima. Ditemi voi come ci si difende da accuse così, per di più de relato, da parte di morti e non di vivi».
gianmarco.

chiocci@ilgiornale.it

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