
Il tempo rende sempre più bello il ricordo dei miei genitori, donna Leonór Acevedo e don Jorge Guillermo Borges. Mio padre era professore di psicologia e lingue moderne. Era uomo brillante, pr quanto fosse forse un po' timido. Teneva tre lezioni la settimana e guadagnavo uno stipendio abbastanza dignitoso, sufficiente a mantenere la famiglia. Quel poco che avanzava lo spendeva in libri per arricchire la sua biblioteca, o donarli ai suoi alunni. Mio padre fu la prima persona che mi stimolò a scrivere. Credo che, in qualche modo, ebbe il presentimento che potevo essere uno scrittore. Ricordo che mi disse di scrivere molto, di non smettere mai di scrivere, ma di farlo solamente quando ne avvertivo la necessità e, fondamentalmente, di non affrettarmi a pubblicare: c'era sempre tempo.
Il mio primo libro, Fervor de Buenos Aires, lo pubblicai quando avevo già scritto il quarto o quinto. Correva l'anno 1923 e mio padre mi donò 300 pesos per farlo stampare. Corsi entusiasta alla tipografia Balcarce, nei pressi di Plaza de Mayo, a consegnare gli originali puntigliosamente ordinati, e in 6 giorni mi consegnarono il libro: 300 copie stampate su carta leggera. Di lì a qualche giorno mi imbarcai per l'Europa. Il libro fu distribuito a Buenos Aires tra i miei amici. Fu accolto con molta comprensione, ed ebbe critiche abbastanza favorevoli. Ricordo che Ramòn Gomez de la Serna abbondò in lodi, forse per me immeritate. Quattro anni più tardi fui invitato a partecipare ad una antologia curata da César Tiempo e Pedro Juan Vignal, ma già nel 1927 avevo pubblicato un altro libro di poesie, Luna de enfrente.
Che cosa significò per me partecipare a quella antologia? Non lo nascondo: fu molto importante. Era un riconoscimento, e i riconoscimenti - immeritati o meritati - sono sempre uno stimolo. Soprattutto per uno scrittore solitario. Nel presentare le mie poesie dicevo che ne stavo scrivendo altre tipicamente legate alla mia città (perché non suoni ambizioso diciamo del quartiere Palermo dove abitavo) in un libro. Qui però mia intenzione parlare d'altro... Mi consentirò tuttavia un'altra piccola digressione. Questa. Nel 1930 ebbi una gradita sorpresa: erano state vendute 27 copie dei miei libri. Quando lo dissi a mia madre ricordo che si commosse molto. «Ventisette copie sono una cifra incredibile», mi disse. E aggiunse scherzando: «Stai cominciando ad essere un uomo famoso, Georgie».
Basta con le digressioni. Com'era mia madre, donna Leonor Acevedo in Borges? Una creatura straordinaria. La prma cosa che mi viene in mente è la sua bontà. Mi sento un po' colpevole di non essere stato un uomo felice, per darle una meritata felicità. Sento questa colpa. Forse avrei dovuto essere più comprensivo con lei. Non so dire. Forse tutti i figli, quando muore la madre, sentono di averla accettata naturalmente, come si accettano la luna o il sole o le stagioni dell'anno, e di averne abusato. Donna Leonor fu donna intelligente affabile, e credo non ebbe alcun nemico. Aveva il dono dell'amicizia. A volte venivano negre molto vecchie a farle visita a casa mia. Erano discendenti di schiave appartenute alla mia famiglia. Una di queste si chiamava come mia madre, Leonor Acevedo: nel secolo scorso era un fatto non infrequente. Mia madre era anche donna molto coraggiosa. Negli anni duri del peronismo, quando fui espulso dalla presidenza della Società Argentina degli Scrittori, per essermi rifiutato di appendere il ritratto di Peròn alle pareti, fummo minacciati - mia madre ed io - da un cialtrone del comitato peronista. Telefonò una volta a tarda notte, e rispose mia madre. «Vi ammazzo, te e tuo figlio», disse una voce rotta e studiatamente cattiva. «Perché, signore?», domandò mia madre. «Perché sono peronista» aggiunse l'anonimo. Allora mia madre gli disse: «Bene, quanto ad ammazzare mio figlio, è molto facile. Esce tutte le mattine alle 8 per andare al lavoro; lei non deve far altro che aspettarlo. Quanto a me ho compiuto 80 anni, e le consiglio di far presto se vuole uccidermi, perché da un momento all'altro io le muoio prima». Che bello, questo «io-le-muoio- prima, no»? E detto in maniera proprio creola. E che stupida la minaccia. In realtà tutte le minacce di morte sono ridicole. In quale altro modo si può minacciare se non di morte? La cosa intelligente, originale sarebbe che qualcuno minacciasse un altro di immortalità. Bene, quella minaccia non si realizzò. Io sto raccontando questo aneddoto, e mia madre è morta di morte naturale.
Donna Leonor, che morì poco prima di compiere cent'anni, si lamentava del fatto che Dio la facesse vivere tanto a lungo. È così? Proprio così. Ricordo che compiendo 97 anni mi disse: «Caramba, Georgie, mi sono fatta prendere la mano». Gli anni che seguirono furono i peggiori. Ogni notte invocava Dio per non risvegliarsi il giorno dopo. poi si svegliava e piangeva. Non si lamentava. Infine una notte Dio la esaudì. Morì alle 4 del mattino. Mia madre non apprezzava molto gli spacconi né i guappi che col passar del tempo mettevo nei miei libri. Quante volte mi disse: «Che sia l'ultima volta che scrivi su uomini malnati. Sono stanca dei tuoi villani e dei tuoi attaccabrighe. Voi li descrivete come uomini coraggiosi e tutti i guappi sono dei deboli». A mia madre non piaceva per niente questo tema, e accusava il Povero Evaristo Carriego, che pure aveva questo culto per il coraggio, d'avermi contagiato.
Carriego conobbe personalmente veri malviventi. Io invece li conobbi quando erano - come dire - un po' in disarmo, quando erano già a riposo. Il guappo Paredes fu mio amico. Ricordo l'ultima volta che gli feci visita a casa (a quell'epoca era gia molto povero e viveva quasi in miseria), e mi regalò un'arancia, «Dalla mia casa nessuno può andarsene a mani vuote», mi disse. E non trovando altro da darmi, mi diede un'arancia. Che pensava mia madre di Evaristo Carriego? Che era un bravo ragazzo, ma senza alcun merito. Carriego morì nel 1912, e nel 1930 io scrissi un libro su di lui. Mia madre mi chiese allora: «Perché hai scritto un libro su quel ragazzo?». Io le spiegai che l'avevo scritto perché era nostro vicino. «Figlio mio», ribatte lei, «se ti metti a scrivere un libro su tutti i nostri vicini siamo davvero sistemati».
Dovremmo concludere questa rievocazione parlando dello scrittore Rafael Cansinos Assens. È giusto. Rafael fu una delle ultime persone che vedi prima di lasciare l'Europa, e fu per me come imbattermi in tutte le biblioteche d'Occidente e d'Oriente. Si vantava di poter salutare le stelle in 14 lingue, classiche e moderne. Era l'uomo che aveva letto tutti i libri, questa era l'impressione che mi dava quando parlavo con lui. Tradusse Barbusse dal francese, Sequence dall'inglese, le Mille e una Notte dall'arabo, tradusse scrittori latini, selezioni del Talmud dall'ebraico e non era mai uscito dalla gigantesca biblioteca che aveva a Madrid. Si guadagnava la vita facendo traduzioni. Il suo circolo letterario era famoso in tutta la Spagna; in quegli anni c'era anche il circolo del Cafè de Pombo, la cui guida e principale animatore era Gomez de La Serna. Di questo circolo faceva parte anche il pittore Gutierrez Solano. Ma a me piaceva di più il circolo di Cansinos Assens. Ricordo che aveva scritto una poesia sul mare, bellissima.
Io mi congratulai e lui, con accento andaluso, mi disse: «Sì, sì, il mare deve essere davvero bello. Spero di vederlo una volta». Rafael non aveva mai visto il mare. Come Coleridge lui ne aveva l'idea principe, l'archetipo, nella mente. Gli bastava. È tutto.(17 marzo 1982)