La prima volta che Virginio Gino Carlo Achille Maria Lugli Munaron - per gli amici e per le cronache solo Gino Munaron - finì fuori strada,non era ancora nato. Accadde il 19 gennaio 1928. «Mio padre Ramiro, distributore dell’Alfa Romeo per il Piemonte e l’Emilia Romagna, era stato a festeggiare il suo 43˚ compleanno a Montecarlo. Tornava a Torino sulla Lancia Lambda guidata da mia madre Adly, alsaziana. Sa, mamma andava d’abitudine come una revolverata... Io ero nella sua pancia. Colle di Tenda, Borgo San Dalmazzo, Cuneo. Su un rettilineo li sorpassa Vigin Gismondi, il collaudatore di Vincenzo Lancia. Li guarda con aria di sfida, si conoscevano bene. Le pare che i miei genitori potevano mandar giù l’affronto? Fu guerra. E su una semicurva, il ghiaccio...». Il 2 aprile la signora scodellò a Torino, bello integro, il pilota di lungo corso che 80 anni dopo non ha ancora smesso di fare l’unica cosa per cui crede d’essere venuto al mondo: correre. Si è cimentato con tutte le case automobilistiche, dalla Osca dei fratelli Maserati alla Ferrari, passando per Nardi, Siata, Porsche, Lancia, Peugeot, Alfa Romeo, Fiat.
Il prossimo 15 maggio Gino Munaron aggiungerà al suo palmarès un primato che la storia non concederà a nessun altro essere umano: prenderà parte a quella Mille miglia che nacque un anno prima di lui, nel 1927, «la corsa più bella del mondo» come la definiva Enzo Ferrari, il quale prima di diventare l’Ingegnere era stato sul libro paga del padre di Munaron. E lo farà con la stessa auto, una Peugeot 203, che 55 anni fa, nel 1953, portò alla vittoria nella categoria turismo 1300. Finora ne ha disputate 19, di Mille miglia, record imbattuto e imbattibile, «anche se quelle vere si contano sulle dita di una mano, queste sono barzellette».
Quando fu partorito, il padre era disperso nelle Marche perché la sua Lambda s’era rotta proprio durante la seconda Mille miglia. Prima del padre s’era fatto valere il nonno Giovanni Battista, che nel 1898, con una De Dion Buton, cercò di superare in velocità i cavalli all’ippodromo di Padova, città d’origine dei Munaron: «A quell’epoca percorrere qualche centinaio di metri era già un gran risultato». Il nonno volante, laureatosi sul circuito di Le Mans alla bellezza di 307 chilometri orari, abita a Valenza (Alessandria).
Nello studio ha messo in cornice un assegno circolare di 7.650 lire della Banca provinciale lombarda, il rimborso di una delle tante multe per eccesso di velocità. «Quante ne ho prese? Di sicuro almeno un centinaio. Molte le ho contestate emihanno restituito i soldi. Molte le ho buttate via. Nemmeno una per divieto di sosta o altro». Le radiografie confermano: 19 ossa rotte in quattro incidenti («mai su strada, sempre in corsa ») da cui è uscito vivo per miracolo. Il più tremendo gli capitò mezzo secolo fa inSvezia: «Bacino spezzato in cinque parti, tre incrinature della colonna vertebrale, un rene schiacciato. Appena giunto in ospedale, quattro vichinghe mi afferrarono per le gambe. Mi ridussero le fratture così, sul banco dei raggi. Per 106 giorni inchiodato su un asse. Fortuna che l’infermiera Gunilla ogni tanto trasportava il letto a rotelle in soggiorno, dove suonava per me O sole mio al pianoforte. Venne a trovarmi la nazionale francese che partecipava alla Coppa Rimet del ’58. Quando i giocatori seppero che Gunilla mi preparava i maccheroni con sopra la composta d’arance, cominciarono a portarmi ogni giorno camembert, gallette salate e bottiglie di Bordeaux. Un pomeriggio non mi trovarono: ero stato messo in una bara senza coperchio e trasferito a Milano con l’aereo. Conservo ancora la cartolina che la squadra mondiale mi spedì in Italia, con le firme di tutti i 22: Fontaine, Piantoni, Kopa, Jonquet... ».
Amico fraterno di Tazio Nuvolari, Achille Varzi e Juan Manuel Fangio, tra i fondatori della Bmw Italia, Munaron mise la testa a posto soltanto dopo aver incontrato la sua seconda moglie, Erminia Moneta, pronipote di Ernesto Teodoro Moneta, vincitore nel 1907 del primopremio Nobel (per la pace) assegnato a un italiano. È morta due anni emezzo fa. «Minnie mi ha fatto cambiare vita. Prima ero disordinato. Oggi che lei non c’è più sono disorientato».
A che età cominciò a guidare?
«A 6 anni. Andavo al parco del Valentino
con mio padre. Mi metteva
sulle ginocchia emi dava in mano il
volante di una Fiat 509 Torpedo. Il
mio padrino di battesimo fu il conte
Didi Trossi, gran corridore dell’Alfa
Romeo, nonostante soffrisse
di chinetosi. La domenica alle 11
papà mi portava al bar Barovero in
piazza Carlo Felice, dove si radunavano
gli appassionati di auto, assai
rari a quel tempo, capitanati da
Battista Farina, detto Pinin, perché
era il più piccolo di tutti ma anche
il più grande».
Il suo destino era segnato.
«A dire il vero io a 12 anni avevo
già un posto all’Accademia navale
di Livorno. Purtroppo morì mia madre.
Cancro allo stomaco. Le facemmo
il funerale nel giorno del suo
compleanno. Mio padre, affranto,
mi disse: “Siamo rimasti soli, non
lasciarmi anche tu, resta a Torino”.
Obbedii. Per casa girava Tazio
Nuvolari. Innamorarsi delle corse
fu inevitabile».
Che ricordi ha di Nivola?
«Vacanza ad Asiago, avrò avuto
8-9 anni. Arriva con un’Alfa Romeo
2900 touring: “Monta su, che
proviamo una salita”. A metà arrampicata
mi viene spontaneo dirgli:
ma è tutto qui, Nuvolari? “Ah, è
così?”, fa lui. “Tieniti forte”. Siamo
giunti in cima in un modo che non
dimenticherò mai più. Lui non guidava
l’auto: la adoperava. Nelle discese
ripide, per frenare sterzava
bruscamente e percorreva
gli ultimi 100
metri di traverso.
Aveva una forza pazzesca
nelle braccia.
Fu sepolto con accanto
il suo volante preferito
e addosso il maglione
giallo e i pantaloni
blu che per scaramanzia
metteva sempre
durante le gare».
«Correrai ancor più
veloce per le vie del
cielo» è scritto sull’ingresso
della tombadi
famiglia deiNuvolari
nel cimitero di
Mantova. Ha capito
perché agli uomini
piace tanto correre
in auto?
«È una sfida per sentirsi
vivi. Dopo il via,
io non ho mai saputo
se sarei arrivato in
fondo e non ci ho mai
neppure pensato. Allora
indossavamo solo un caschetto
di tela e una maglietta con le maniche
corte, perché la lana è ignifuga:
se prendevi fuoco, dovevi sfilartela.
Fine delle precauzioni. Al traguardo
ti aspettavano due soddisfazioni:
essere ancora intero e ritrovarti,
qualche volta, in classifica».
La sua prima corsa?
«La Aosta-San Bernardo nel 1949.
L’ultimo tratto era privo di asfalto.
Con Paolo Cordero di Montezemolo,
cugino del padre di Luca, assemblammo un’auto
degna di Frankenstein:
motore V8 della Ford, un residuato
bellico dell’esercito americano
di liberazione; cambio della Lancia
Astura; ponte di una Fiat 2800.
Nel 1952 feci il Giro di Sicilia e la
Mille miglia con una Fiat V8 preparata
dalla Siata. Fu costruita di contrabbando,
all’insaputa dell’amministratore
delegato Vittorio Valletta
e di tutto lo stato maggiore della
casa torinese».
E poi?
«Nel 1954 fui mandato da Enzo
Ferrari alla Temporada in Argentina.
Trentatrè ore di aereo per arrivarci,
con soste a Milano, Parigi, Lisbona,
Dakar, Recife, Rio de Janeiro,
Montevideo, Buenos Aires. L’ingaggio
di 900.000 lire dovevo dividerlo
ametà con la scuderia modenese,
perché il Drake ti riconosceva
solo il trattamento di mezzadria,
niente stipendio. Tornai a correre
in Argentina altre tre volte.
Ero diventato amico intimo di Fangio.
Nonostante avessi la camera
d’albergo pagata, andavo a dormire
a casa sua. Viveva con Beba,
una donna di una gelosia asfissiante.
Lui le diceva: “Cara, vado al ristorante
con Gino”, e invece ne approfittava
per raggiungere le sue
amanti, una più bella dell’altra.
Ero diventato il suo alibi».
Donne e motori, con quel che segue.
«Nel mio piccolo ho
conosciuto le gemelle
Kessler al Lido di Parigi.
Ero con Alfonso
De Portago, il pilota
spagnolo che poi morì
alla Mille miglia del
1957 per lo scoppio
di uno pneumatico
della sua Ferrari. E lì
ho imparato due cose
sulle Kessler: che
non sono tedesche,
bensì armene anche
se poi naturalizzate
in Germania, e che sono
nate a dieci mesi
di distanza l’una dall’altra...
Però avevano
18 anni ed erano
carinissime».
Lei ha corso anche
in Formula 1, se non
ricordo male.
«Sì, a Silverstone, Reims,
Brandshatch,
Monza. Il massimo
della gloria fu il terzo posto al Gran
premio di Buenos Aires, che vale
come il primo posto di oggi».
Perché?
«Allora il pilota faceva il 65% del
risultato. Oggi se arriva al 20-25%
è già tanto. Le nostre gomme erano
larghe 18 centimetri. Oggi sono
60. Uno come Michael Schumacher
è nato per queste auto. Quando
vado a Maranello, dico sempre
ai miei amici della Ferrari: ma la
coppa ai meccanici quand’è che la
date? Mica per altro: gli unici sorpassi
si vedevano ai box. Oggi va
un po’meglio».
In che senso?
«Hanno tolto il controllo di trazione
e quello della partenza. Prima il
pilota era un trasportato. Si sedeva
al posto di guida, schiacciava fino a
metà corsa l’acceleratore, anche
se per un prodigio della tecnica il
motore continuava a girare al minimo,
e aspettava. Un contatto elettronico
collegato al semaforo dava
gas al bolide quando si spegneva la
luce rossa del via. E questa me la
chiamano partenza?».
Vuoi mettere la Mille miglia...
«Ma no, guardi, anche lì ormai è
tutta scena. Di competitivo non c’è
nulla. È una gara di regolarità. Devi
passare a zero sui pressostati nel
tal posto, chessò, alle ore 15 e 20
minuti e 37secondi. Ci sono concorrenti
muniti di computer, navigatore
satellitare, auricolari e tutte le
gabole di questo mondo. Spaccano
il capello negli ultimi 50 metri,
quando è proibito fermarsi, grazie
a un gong che scandisce i secondi
mancanti: deng, deng, deng. Ma
che roba è? L’auto io la vivo. Della
regolarità non mi frega un cazzo.
Passare a zero è come mettere sotto
le lucertole. Lei c’è mai riuscito?».
Chi sarà il suo navigatore?
«Del Zoppo. Il nome non lo so. Ancora
non l’ho incontrato. Al via saremo
in 700 driver e 350 auto, non
è che posso conoscere tutti. È un
ottimo rallista. Andremo d’accordo».
Ma non sono faticosi, a 80 anni
suonati, 1.300 e rotti chilometri
su e giù per l’Appennino, da Brescia
fino a Roma, e ritorno?
«Solo la prima tappa, Brescia-Ferrara.
Si parte tardi e non arrivi mai
prima di mezzanotte. Parcheggia,
trova l’albergo, sistemati, alla fine
più di tre ore non dormi, perché alle
7 si riparte».
E quanto costa partecipare?
«Sa che non lo so? Dev’essere una
roba sui 5.500 euro. Allucinante.
Io non ho mai pagato. Porto già la
mia persona».
Quanti punti le rimangono sulla
patente?
«Come sarebbe a dire? Me ne rimangono
24, cioè ne ho persino
guadagnati. Non sono mica così
matto da correre dove non si può!
Bisogna scegliere le strade e l’ora
giusta per farla un po’ allegra, cosa
crede?».
Ma il limite di velocità ideale in
autostrada quale dovrebbe essere,
secondo lei?
«In Germania non esiste alcun limite,
a parte quello suggerito dalla
prudenza di chi guida, e il tasso di
mortalità per incidenti è nettamente
inferiore rispetto all’Italia. La verità
è che da noi non esiste una vera
scuola guida. Ti insegnano a guidare
sulle strade di città. Maidi notte,
mai con la pioggia, mai sul
ghiaccio. Poi il sabato sera questi
diciottenni, in cimbali per l’alcol o
per la droga, si ritrovano a cavallo
di mezzi che non conoscono e vanno
a schiantarsi».
Che cosa pensa degli autovelox,
dei laser, dei tutor e di tutte le altre
diavolerie contro chi corre?
«Non devo essere io a spiegarle la
disonestà con cui sono stati gestiti
in molti Comuni i T-red, i cosiddetti
semafori intelligenti. SiamounPaese
dove per denaro si fa qualsiasi
cosa, qualsiasi!».
«Più velocità più pericolo». Slogan
per le campagne del ministero
dei Lavori pubblici o verità?
«Più velocità dove si può, questo bisognerebbe
dire. Negli Usa il limite
è di 65 miglia, 110 chilometri orari,
in quasi tutti gli Stati. Però, parlo
per esperienza personale, lì tu
riesci a tenere delle medie altissimeanche
in città perché tutti circolano
alla stessa velocità. Qui trovi
sempre un somaro davanti».
Quante auto ha avuto fino a oggi?
«Solo contando quelle di proprietà,
più di 70. La TriumphTR3 nera del
1957 che guidava Marcello Mastroianni
nella Dolce vita di Federico
Fellini era mia. Una macchinaccia.
Le auto inglesi erano delle
troiate pazzesche».
E adesso?
«Ho una Bmw 635i del 1981. L’ho
comprata da un imprenditore che
la teneva ferma da 14 anni in un
garage di Milano. Aveva appena
11.000 chilometri. L’ho solo lavata
e ho cambiato le gomme. Perfetta,
come se fosse uscita ieri dalla fabbrica».
A quale auto è rimasto più affezionato?
«All’ Aurelia B24 prima serie America.
Era veramente una spider,
col parabrezza avvolgente, senza
cristalli laterali. Aveva
il motore Carrera.
Ci feci il miglior tempo
fra Torino e Nizza:
2 ore e 35. Ci ho
riprovato anche con
la Ferrari 3000: mai
eguagliato. Ne ho
avute tre o quattro,
di “rosse”. Però l’auto
in assoluto più bella
che ho guidato in
vita mia è la Audi R8.
Ha un’accelerazione
e una tenuta di strada
che non puoi capire
finché la vedi da
fuori. Ma quando ci
sei seduto dentro, come ho fatto
io sulla costa
californiana del
Pacifico per due giorni...
Indimenticabile».
Comprerebbe un’auto
cinese?
«Gnanc par nient.
Ma per carità! Ho
avuto contatti con quei signori
quand’ero amministratore delegato
della Trw, colosso americano
della componentistica per auto. Andai
in missione a Pechino con Umberto
Agnelli. I cinesi avevano bisogno
di trattori. Dissi loro: “I brevetti
sono nostri, ma se fate l’accordo
con la Fiat vi diamo la roba”. Sa
quale fu la risposta? “Noi non riconosciamo
i brevetti”.
(410. Continua)
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.