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Abbagliati dal Sol dell’avvenire

Abbagliati dal Sol dell’avvenire

Mirella Serri, docente di Letteratura italiana e Giornalismo alla Sapienza di Roma, ha scritto due libri importanti sul rapporto tra cultura e potere. Il primo, I redenti (2009), sugli «intellettuali che vissero due volte», quelli che prima furono fascisti poi vicini o dentro i partiti di sinistra. Il secondo, I profeti disarmati, sull’«altra» intellighenzia italiana, quella che, pur di sinistra, non si lasciò attrarre dalle seduzioni del Pci. Ora ne ha scritto un altro, perfetta conclusione di un’impietosa trilogia sulle «relazioni pericolose» tra uomini di idee e Ideologia. S’intitola Sorvegliati speciali (Longanesi), porta il sottotitolo «Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-80)», e sulla base di rapporti di polizia fino a oggi inediti, chiusi in faldoni d’archivio mai prima esplorati, rivela una vicenda forse sospettabile, ma comunque sorprendente.
Questa: dall’immediato dopoguerra fino agli anni ’80 i governi a maggioranza democristiana, con un picco nell’epoca Scelba, spiarono attraverso agenti di polizia e uomini dei servizi segreti moltissimi intellettuali organici al Pci e al Psi, ritenuti pericolosi fomentatori e megafoni per una possibile sovversione del sistema. Dai documenti top secret, redatti dagli occhiuti funzionari della Polizia di Stato ad uso delle Prefetture e del ministero degli Interni, emerge un incredibile e a volte grottesco mondo culturale, fatto di riunioni, mostre, convegni, cineforum, incontri nelle sezioni di partito o nella sede, molto ben frequentata, della Casa della Cultura di via Borgogna a Milano. Un via vai di scrittori, giornalisti, registi, compassati filologi e infervorati uomini di spettacolo. Tutti fiancheggiatori del Pci, quindi tutti potenziali rivoluzionari, quindi tutti spiati e schedati. In questo senso i dossier dei «questurini» rivelano un lato illiberale della Prima repubblica che difficilmente si poteva immaginare arrivasse a un così preoccupante livello di Stato di polizia. E questo è senz’altro l’aspetto più insolito e nuovo del saggio della Serri.
Poi però ce n’è un altro, già toccato in maniera frammentata da tanta pubblicistica ma non meno sorprendente. Ed è l’appoggio irrazionale, a prova di dubbi, concesso all’Urss e alle sue meraviglie da parte delle teste d’uovo del Pci. Sempre graniticamente sicuri di essere dalla parte del «giusto», gli intellettuali-portabandiera del verbo togliattiano-gramsciano-stalianiano, continuano a cantare, fino agli anni ’80, sempre con l’identica fermezza, sempre senza incertezze, i trionfi, il benessere, le conquiste economiche e culturali del popolo russo e dei Paesi del socialismo realizzato. I maître à penser di Botteghe Oscure abbagliati dal Sol dell’Avvenire.
E qui, i brogliacci redatti dai segugi di Stato che s’intrufolano nelle casematte gramsciane (associazioni teatrali, giornali, case editrici, centri studi, scuole...) mettono a nudo l’atroce illusione della sinistra. I capitoli 10 e 11 del saggio della Serri, in particolare, offrono un campionario stupefacente e impietoso degli intellettuali «Folgorati sulla via di Mosca» ostinatamente convinti che «A est si ride e a Ovest si piange». «Cattivi maestri - scrive l’autrice - che hanno tranquillamente continuato a pontificare dai pulpiti più prestigiosi, accademici e non, senza mai essere chiamati a rendere conto». E senza mai un pentimento pubblico, aggiungiamo noi. Qualche esempio. Italo Calvino, di ritorno dall’Urss, nel ’52, sfiorando l’apologia di comunismo, scrive: «Alla prima occhiata, capisco subito che qui c’è una società diversa, sento la presenza d’un elemento nuovo: l’uguaglianza». Emilo Lussu, negli anni di Stalin, elogia la pacifica e pacifista Russia: «Ai bambini sovietici sono sconosciuti i giocattoli che riproducono ordigni di guerra ... là si coltivano sentimenti di bontà e di fraternità». Carlo Salinari, anch’egli reduce da un tour moscovita, racconta di «aver riportato la chiara sensazione che in Russia i lavoratori, a differenza di quelli italiani, operano in un ambiente di assoluta serenità e di grande conforto». Antonio Banfi arriva a dire che «Se il mondo sovietico dovesse sparire, sparirebbe insieme a lui la speranza di vita migliore e il simbolo cui si rivolge fiducioso ogni cuore oppresso dall’ingiustizia». Luchino Visconti, nel ’63, sostiene che «solo una società socialista può garantire le forme di concreta libertà di ricerca e di espressione». E Natalino Sapegno, spiato dalla Questura di Roma, esalta l’Urss, «dove vi sono democrazia e libertà. Non libertà come da noi, dove c’è quella di morire di fame dominati dal Vaticano e l’America». È vero: dice queste cose nel ’49. Ma nel 1970, ad esempio, l’intellighenzia italica festeggia compatta il centenario della nascita di Lenin.

E nel ’67, per i 50 anni della Rivoluzione russa, Umberto Terracini da un palco definisce l’Urss «lo Stato più avanzato del mondo».
Stati di allucinazione progressista. Come da titolo di un capitolo: «Teste d’uovo arruolansi». Per ottime frittate ideologiche.

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