Spettacoli

Un Abdrazakov superlativo, un monaco estone, la sicurezza del maestro Chailly e una sola donna: la sfortunata Ksenija

Possono esserci un'ottima orchestra e chi la conduce, eccellenti coro, cast di cantanti, regia e scenografia, ma senza un protagonista superlativo, Boris Godunov non s'ha da fare

Un Abdrazakov superlativo, un monaco estone, la sicurezza del maestro Chailly e una sola donna: la sfortunata Ksenija

Possono esserci un'ottima orchestra e chi la conduce, eccellenti coro, cast di cantanti, regia e scenografia, ma senza un protagonista superlativo, Boris Godunov non s'ha da fare. Per il Boris di stasera entra in campo il basso Ildar Abdrazakov, 46 anni, cresciuto nella russa Ufa, e alla sua sesta Prima della Scala. Dai primi di novembre, quando è arrivato a Milano per lavorare alla nuova produzione, ha vissuto più come il monaco Pimen che come Boris, lo Zar di tutte le Russie, si è infatti limitato all'asse casa-teatro evitando luoghi e situazioni a rischio contagio. Sa di essere la colonna di questo Sant'Ambrogio, e che la prima della Scala è il Super Bowl della lirica. Del resto, l'idea di aprire la stagione con l'opera di Musorskij prese forma mentre il direttore musicale Riccardo Chailly lavorava con Abdrazakov all'Attila di Giuseppe Verdi, nel 2018. I due si piacquero. Accesa la scintilla, Abdrazakov propose l'Ur-Boris a Chailly, vale a dire la versione primigenia, quella che vede calare il sipario (verso le 21.15) su di lui, padre e zar, che indica il figlio come suo successore, chiede perdono e s'accascia senza vita.

Dopo l'introduzione orchestrale, miscela di lamento e impeto, il primo personaggio a fare il suo ingresso è il coro, la voce del popolo dunque presentissimo in quest'opera. Chailly, al suo nono Sant'Ambrogio, è innamorato di questa partitura - classe 1869 - talmente moderna da non essere compresa dai committenti dell'epoca, «è di una freschezza, abrasività, coraggio e provocazione armonica che continua a sbalordire». A provocare è poi il soggetto centrato su chi «malgestisce il potere macchiandosi di omicidi che poi creano sensi di colpa fino all'autodistruzione», osserva Chailly in perfetta sintonia con il regista danese Kasper Holten che per tradurre il peso dell'infanticidio compiuto dallo zar ha scelto di mostrare costantemente un fanciullo, l'erede al trono, macchiato di sangue.

Boris Godunov è un dramma in musica dove la parola regna sovrana, conoscere la lingua russa è opportuno. È la ragione per cui il 70% del cast si compone di cantanti russi, per la verità inizialmente era previsto anche un buon comparto di ucraini ma poiché a Kiev non è gradito che i propri artisti condividano lo stesso palcoscenico con i colleghi del Paese belligerante, è stato ridisegnata la compagnia di cantanti. È sfuggito all'operazione solo un tenore - impegnato tuttavia in una piccola parte - forse graziato dal fatto che vive in Italia da anni.

Ain Anger, anche lui basso come Boris, indossa i panni di Pimen, il monaco intento a riscrivere la storia russa. Vuole dare voce alla verità, denunciando ciò che si muove dietro le quinte del potere. A tradurre la sua missione c'è una gigantesca pergamena (in alluminio e legno): un fondale che si mangia il palcoscenico con pagine dai diari di Puskin. Estone, dunque in confidenza con la lingua della confinante Russia, Anger nel 2004 è entrato nell'ensemble della Staatsoper di Vienna dove ha interpretato più di quaranta ruoli, tra cui molti wagneriani.

«Chi fa Varlaam»? Era solito chiedere Claudio Abbado - così riferisce Chailly - quando andava in scena Boris Godunov. Perché al frate girovago Varlaam spetta un compito vitale: spazzare via, almeno per qualche minuto, la cupezza di un'opera segnata da infanticidi, follie, tradimenti. Un'allegria alcolica perché è una bella sbronza in un'osteria al confine con la Lituania a dare la carica al frate briccone, che sarà Stanislav Trofimov, basso che abbiamo ascoltato alla Scala nella Chovanscina diretta da Gergiev. Curiosità, ha un passato da sacerdote.

Il secondo atto prevede un momento di lirismo puro con il canto triste di una delle poche donne di quest'opera senza intrecci amorosi, madri e regine. Entra in scena Ksenija, la figlia di Boris, affidata al soprano Anna Denisova, nata nella regione di Amur, ai confini con la Cina.

Accanto a lei, il fratello Fedor che scruta le carte geografiche, e come spesso accade è affidato a una voce femminile, quella del mezzosoprano di Lilly Jørstad.

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