Gli abitanti in rivolta E i pescatori disperati bloccano pure il porto

Quella porta aperta, al centro del Mediterraneo, che dall’Africa vomita sulle sue coste migliaia e migliaia di immigrati - con gli arrivi delle ultime 24 ore, circa duemila, il totale da gennaio a oggi ha raggiunto quota 20mila - hanno tentato di sprangarla a modo loro. E non con i loro pescherecci. No, per creare un «muro» e bloccare l’ingresso del porto i pescatori di Lampedusa hanno usato il loro incubo, le carrette del mare vuote abbandonate e che in teoria sono sotto sequestro: le hanno prese con la forza, le hanno trainate all’ingresso del porto con i loro pescherecci legandole l’una all’altra, in fila indiana, 122 in tutto. E le hanno usate come barriera per realizzare quello che non si riesce a fare a monte: un blocco navale che smetta di riversare ogni giorno, nell’isola, almeno un migliaio di clandestini da ammassare non si sa più dove, da nutrire non si sa più come, visto che sono circa 6mila, più degli abitanti dell’isola.
È stato il giorno della rivolta, ieri a Lampedusa. La rivolta dei pescatori, che hanno tenuto in piedi sino a sera il loro blocco di barche nel tentativo di fermare gli sbarchi. Tentativo vano visto che due barchette, con una cinquantina di clandestini ciascuna, in arrivo dalla Tunisia, sono riuscite a passare nonostante lo sbarramento. In serata l’ennesimo barcone, con 140 profughi a bordo, in gran parte eritrei e somali (che sinora sono stati tenuti lontani dai tunisini), è approdato nell’isola. E sempre in serata, a 30 miglia da Lampedusa, è stata soccorsa un’altra carretta, a bordo 240 persone, anche minori e due donne incinte. Rivolta dei pescatori. Rivolta dei consiglieri comunali del centrodestra, che si sono incatenati sul molo. E rivolta, soprattutto, delle donne, ieri a Lampedusa. Loro, le mogli di pescatori, ristoratori, di persone impiegate nel settore alberghiero, non vivono più: se i loro uomini non vanno a lavorare non guadagnano; ma se escono loro preferiscono restare barricate in casa, troppo rischioso andare in giro con tanti disperati pronti a tutto. Di qui la rabbia, culminata anche in blocchi stradali fatti di cassonetti rovesciati, di massi trascinati in mezzo alla strada, e in un presidio sul molo sciolto solo nel tardo pomeriggio.
Inevitabile. Inevitabile perché il grado di esasperazione cui i lampedusani sono arrivati dopo settimane di assedio senza tregua non poteva che esplodere. Già lo scorso 18 marzo gli isolani avevano tentato il blocco dei moli d’attracco, minacciando di buttarsi in mare ogni volta che qualche carretta, anche scortata dalle motovedette, si avvicinava. Ieri la replica, in grande stile. A fare da detonatore una serie di eventi: intanto la notizia del furto in una villetta, denunciato da una coppia di isolani (lui, anche se la ricostruzione è controversa, si sarebbe beccato anche un pugno); poi il timore di ritrovarsi messi in quarantena per il rischio epidemie; e poi una quasi-rissa scoppiata durante uno degli incontri tra gli amministratori comunali e il comitato delle donne. I toni si sono alterati, il presidente del Consiglio comunale, accusato di scarso impegno, avrebbe urlato un «siete bestie!». È stato il putiferio. Tra lacrime e urla le donne esasperate si sono riversate sul molo. E lì si sono unite ai consiglieri comunali del centrodestra, che già si erano incatenati per chiedere che Lampedusa sia svuotata. Al grido di «siamo stato abbandonati da tutti, quando c’è da aiutare un popolo l’Italia si muove, e noi non siamo un popolo?», brandendo la bandiera della Sicilia con la Trinacria al centro e quella a scacchi di Lampedusa hanno presidiato per tutto il giorno la banchina, incitando i pescatori a resistere. «Basta siamo pieni», lo slogan su un lenzuolo, più eloquente di mille urla. Nemmeno la notizia che domani sei navi con diecimila posti per svuotare finalmente l’isola li ha calmati. «Mercoledì? E perché non oggi, perché non subito?», ribattono furiosi i lampedusani a chi dice loro che forse l’emergenza sta finendo. Furiosi. Perché non ce la fanno proprio più. Il sindaco, Dino De Rubeis, ha proclamato lo sciopero generale. E proteste ci sono anche a Trapani, già alle prese con la chiusura dell’aeroporto per la guerra in Libia dove è stato deciso di allestire una tendopoli.
I lampedusani sono allo stremo. Come dar loro torto, del resto? Le scuole sono ancora aperte, ma molte mamme tengono i bimbi a casa per paura di infezioni. Gli isolani vanno in giro con le mascherine. Molti esercizi commerciali sono chiusi, quelli aperti, nel timore di assalti da parte dei disperati che occupano praticamente ogni angolo dell’isola, fanno entrare i clienti ad uno ad uno. Scoppia Lampedusa, e tra un po’ scoppia anche Linosa. La piccola isola, appena sei chilometri quadrati, è usata come una sorta di dependance, per evitare problemi tra etnie diverse. Ma il sovraffollamento si fa sentire pure lì, anche se l’esasperazione non è ancora oltre il livello di guardia, come nella maggiore delle Pelagie. A Linosa, dove ci sono anche alcuni neonati, le donne hanno portato nelle loro case i piccoli per lavarli.

Poi li hanno restituiti alle mamme. Piccoli gesti. Gesti di gente di mare generosa e da sempre abituata all’accoglienza. Gente che però, adesso, è sfinita. E che ricorda, all’Italia: «Loro sono vittime, ma lo siamo anche noi».

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