Addio capitano, uomo di un calcio perduto

In 476 gare di serie A segnò 59 reti e fu espulso una sola volta. Con l’Italia vinse l’Europeo ’68

A nche quel nome: Giacinto. Quasi un profumo. Di cose lontane, antiche, non vecchie. E i suoi sodali, di quella grandiosa Inter, non erano da meno: Giuliano, Tarcisio, Aristide, Armando. All’oratorio di Treviglio segnava con il gesso il campetto di terra e polvere di vetro. Aveva dieci anni ed era già alto una spanna più dei suoi coetanei. A Natale gli regalarono il superflex. Durò mezzora quel pallone bianchissimo, si sgonfiò malinconicamente contro una spina della rete di recinzione. Giacinto non era ancora Magno, come lo chiamò un giorno Brera, ma già aveva le gambe e le voglie di fare cose importanti. All’istituto tecnico Oberdan di Treviglio era tra i migliori alunni in educazione fisica, riuscì a correre gli 80 metri piani, ai campionati studenteschi, in 9 secondi netti, un decimo al di sopra del suo record personale. In quei tempi Ottolina non andava più forte di 8 e 8. Era, dunque, il Giacinto, uno portato all’atletica e allo sport comunque, sua madre Elvira pregava in chiesa perché il Giaci tenesse la testa a posto e il Giaci l’accontentava, chierichetto e anche catechista.
Pagine di diario portate via da quest’aria canagliesca, tossica, umidiccia. Come resta lontano il profilo di Giacinto Facchetti, ultimo simbolo di fedeltà, non soltanto all’Inter ma all’esistenza pura dell’uomo, prima, dell’atleta, dopo. Facile dirlo e scriverlo oggi, quando le lacrime rigano volti di circostanza e la memoria cerca in soffitta chissà quali scrigni, ormai arrugginiti. Facilissimo da sempre per uno come Facchetti, il poster del calciatore, alto e bello, un fusto si usava dire al tempo in cui nessuno osava pensare, immaginare, dire di palestre e muscoli gonfiati da chissà che.
Giocò terzino d’attacco, segnando gol belli e imperiosi, portava la maglietta e indossava i pantaloncini con l’eleganza e la grazia di un vero uomo di sport, non dovendo ricorrere a trucchi e addobbi, collane e tatuaggi. Correva come i professori di ginnastica insegnavano a scuola: il busto eretto, le braccia a fare da stantuffo, le gambe su cosce poderose a mangiare aria e metri di prato, la locomotiva non sbuffava fumo ma andava e tornava potente, mai prepotente. Helenio Herrera si assunse l’onore di trasformarlo nel difensore d’attacco di cui sopra. Lo aveva chiamato, storpiando la carta di identità, per ignoranza, Cipelletti. Da cui Cipe che gli è rimasto da sempre, per sempre. In verità, all’oratorio di Treviglio, il parroco senza essere mago aveva intuito che il «bagài» aveva la pelle per fare tutto, in difesa e in attacco, lo aveva intuito vedendolo dar calci anche a un barattolo, quando il superflex si era sgonfiato contro il filo spinato.
Vennero anni sempre più belli, l’Inter e la nazionale, anche una mezza carriera politica, da consigliere comunale nelle liste della Diccì (preferenze 700, non male) ma Giacinto preferiva il pallone e l’Adda, sul limitare del quale, con Giovanna, moglie e poi madre, aveva intravisto il castello dei sogni, sbirciandolo da un muro di cinta alto più di lui medesimo, sognandolo di notte, disegnandolo dentro la nebbia della bassa, infine comprandolo, dimora di una vita dolce e mai dolce vita.
Partite mille e mille ancora (476 in campionato con 59 gol, 73 in Europa con 6 gol, 85 in coppa Italia con 10 gol, 94 in nazionale, 70 da capitano, con 3 gol), una vita in campo e una sola espulsione, il giorno tredici di aprile del millenovecentosettantacinque, l’Inter contro la Fiorentina a San Siro, l’arbitro è Vannucchi di Bologna, Giacinto graffia Casarsa, una, due volte, finisce fuori, dopo quattordici anni di pulitissima fedina calcistica. Non ci furono altri Vannucchi, nel senso di esplusioni. Facchetti era il purosangue di quell’Inter da gran premio che teneva in scuderia anche cavalli da tiro, da palio e da rodeo. L’Inter di oggi, di ieri lo ha voluto, rivoluto simbolo, icona, immagine, forse di un’epoca che non esiste più ma che a quella figura deve forzatamente ispirarsi se vuole rinascere.
«Nella vita non c’è spazio per la paura», disse un giorno appena muovendo il mento che sapeva tenere sempre alto e altero, come qualunque sua postura, anche a riposo sembrava sull’attenti. La paura ha trovato spazio tra di noi, improvvisamente. Sono tornate alla mente parole e scritto di Arpino, nel suo mirabile Azzurro tenebra: «...fiati di nebbia rotolavano sul prato e laggiù la sagoma di una tuta seguitava a trottare, ogni tanto variando i disegni del suo balletto con rallentati calci nel vuoto, la gamba sinistra e poi la destra sparate come falci, e lunghi tremolii soddisfatti che salivano dalle caviglie ai muscoli dorsali, alla nuca. Undici come lui e non avremmo problemi, l’additò». Così mormorava Enzo Bearzot a Giovanni Arpino che mise giù i sussurri, le parole, il sentimento, la sensazione.
Undici sono pochi. Sono niente. I giorni ultimi sono stati amarissimi. Crudeli. Pure tormentati da storie assurde e malsane, la maledetta vicenda di intercettopoli, il ventilatore che sputava fango.
A Treviglio è calata, imprevista, la nebbia anche se il calendario annuncia altre stagioni. A Milano è improvvisamente buio anche se il sole è alto.

Alto come era Giacinto Facchetti che non lasciava spazio all’avversario e alla paura. Andrò a cercare un pallone bianco, superflex, sgonfio su un filo spinato. Mi verranno in mente il Natale e altre cose confuse e smarrite di Cipelletti.

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