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Addio gigante buono

Come faccio a raccontare il mio Giacinto Facchetti, a mettere insieme cinquant’anni di vita e di calcio, di rapporti intensi e di lunghe separazioni, senza perdermi dietro cento episodi, mille ricordi e una sequenza chilometrica di frasi che ancora riecheggiano nella mia testa? Come faccio? Io e il Facco - ché per tutti noi della grande Inter è sempre stato solo e soltanto il Facco - abbiamo cominciato insieme nei ragazzi dell’Inter. Eravamo dei bambini e siamo diventati uomini, con quella maglia. Giacinto fu scelto dal mago un anno prima di me e mostrò una qualità, decisiva, per Helenio Herrera: i sacrifici, nel lavoro duro, quotidiano, non lo spaventavano. Anzi lo esaltavano. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di mostrarsi, sempre, all’altezza della situazione. Insieme occupavamo lo stesso angolo di spogliatoio della grande Inter dove esisteva una gerarchia anche nell’assegnazione dei posti e degli armadietti. Io e Facco eravamo in un angolino, in mezzo a noi due, Jair appena arrivato dal Brasile, spaventato per il salto dal suo mondo al nostro. Un giorno Jair vide Facchetti che applicava cerotti alle dita del piede trovando qualche difficoltà nel calzare le scarpe e commentò divertito: «No possibile fare entrare Milano dentro Treviglio». Non sapeva neanche lui che Facco stava sfatando un tabù clamoroso. Nel calcio di quei tempi si pensava che per giocare bene al calcio fosse indispensabile un piccolo piede: Zaglio aveva il 37, Picchi il 38. Facco esibiva orgoglioso il suo 42 e mezzo e coi piedi sapeva farci, alla grande.
Una sera dell’estate del ’70, al ritorno dai mondiali del Messico, gli organizzai un tiro mancino. Venne a trovarmi a San Remo, in compagnia di Anastasi e Bertini e invece di starsene al mare e al sole, cominciò a organizzare serate presso gli Interclub della zona. Ci trascinò a Ventimiglia ma per rappresaglia, a fine serata, lo portammo a Cap d’Antibes, fummo accolti nel locale del Pirata e cominciammo a scatenarci: ordinammo ostriche, caviale, champagne e lui niente. Facco non si lasciava corrompere. All’improvviso comparve il commendator Borghi, patron del Varese, ci salutò e disse al Pirata che saremmo stati suoi ospiti. Facco si rimise a tavola e cominciò ad ordinare di tutto, impugnò persino una sigaretta, stava per accenderla quando si voltò verso di me che ero stupito e si mise a ridere. «Ti ho fregato, eh?» disse. Non l’ho più visto così sereno e allegro. Si mise anche a ballare.
Facco non è stato un semplice campione di calcio, il gigante buono come venne battezzato. No. Ha rivoluzionato un mestiere oscuro e banale, quello del terzino abituato a starsene dietro e a tirar palloni in tribuna. È diventato il primo terzino fluidificante della storia e ha incarnato la modernità del ruolo. Dopo di lui sono arrivati gli altri, da Cabrini a Maldini i più grandi dell’ultima era. Nessuno come lui conosceva il tempo per gli inserimenti, riusciva a correre i 40-50 metri con la capacità di un mezzofondista. Herrera pensò addirittura di schierarlo centravanti, a un certo punto. Capì in tempo che sarebbe stato un errore e non se ne fece niente.
Io e Facco non siamo stati sempre sulla stessa barca. Ci siamo anche divisi. E adesso posso raccontare perché. Io conclusi con un anno di anticipo la mia carriera calcistica e accettai il ruolo di consigliere delegato propostomi dal presidente Fraizzoli. Dieci mesi più tardi toccò a Giacinto farsi da parte. Lo chiamai nella mia stanza e con grande lealtà gli dissi: «Facco, non ti posso dare il mio posto, ti offro di dirigere il settore giovanile». Mi rispose altrettanto lealmente: «Ho altro per la testa». Pensava fin da allora alla carica di presidente, il presidente della sua Inter. Da allora i nostri rapporti sono sempre rimasti formalmente buoni ma si era rotto qualcosa. Con Massimo Moratti, abbiamo ripreso a lavorare fianco a fianco: lui si occupava della squadra e di Hodgson, io del calciomercato.
L’ultima volta che ci siamo incontrati è stato a San Siro, nella sera di Inter-Ajax, su invito dell’Uefa che volle festeggiare i trionfi della grande Inter. Era la reclame della salute, continuava ad avere una cura maniacale del suo fisico, giocava a tennis e niente lasciava immaginare quello che è accaduto ieri.

A tradimento per chi non conosceva quel drammatico sviluppo della malattia che l’aveva aggredito. A casa mia sono venuti quelli della Rai a registrare un intervento. Ho aspettato che tornassero in redazione per farmi vincere dalle lacrime.

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