La voce di un tenore, dicono, non si spegne mai per sempre. Rimane attaccata, lei che può, alla memoria, all’eco dei successi, del repertorio, magari anche delle interpretazioni controverse o appena un po’ increspate dai dubbi.
Quella di Salvatore Licitra, morto ieri dopo il più banale degli incidenti stradali, risuonerà a lungo forte, colorita d’ebano e passione, perfetta nel registro cantabile, un baritonale basso registro, un brillante alto, con pieghe a volte di eccessivo melodramma ma sempre, costantemente, capace di impennate improvvise come in quel suo Do sopracuto nella cabaletta del terzo atto Di quella pira.
Una volta il maestro Muti glielo vietò alla Scala, un affronto. E così, quasi per ripicca, sei mesi dopo all’Arena di Verona con Daniel Oren sul podio, Licitra lo cantò ogni sera, e sai quanto generosamente. In fondo lui, un omone con un petto da pugile, era fatto così, figlio di ragusani che lo misero al mondo a Berna nel 1968, per vent’anni indeciso a tutto (fece persino il grafico nel mensile Vogue ) e poi deciso solo a cantare. Bene. Meglio. Di più.
Prima gli studi, timidamente. Poi senza freni. L’Accademia musicale di Parma. I Corsi Verdiani. Il rapporto stretto e fertile con il maestro Bergonzi di Busseto. E toccò proprio a Muti lanciarlo come si deve a una grande voce, ossia con un grande ruolo, l’Alvaro nella Forza del destino.
Da allora Licitra non si fermò più, iniziò a girare il mondo con la grinta sbalordita di un emigrante e la furia determinata di chi se la gioca tutta, sempre, a ogni nota. Prima gli Stati Uniti, solista al concerto della Richard Tucker Music Foundation Opera Gala di New York. Poi Vienna, Staatsoper naturalmente, con una Tosca che fece clamore. E Lisbona. E Roma. E Torino.
Un prodigio. È il 2002, ha trentaquattro anni, la voce in evoluzione, impostata ma agile, potentissima. Sarebbe rimasto, forse,ancora un po’ in panchina, impegnato a crescere nella penombra delle riserve se quella sera alla Metropolitan Opera di New York, il 12 maggio 2002, due ore prima di andare in scena, Luciano Pavarotti non avesse alzato le braccia per ritirarsi. Toccava alla riserva, dunque, all’italiano trentaquattrenne, un po’ corpulento, pieno di vita. Sul palco, con quel cronometraggio implacabile che talvolta consacra i personaggi, prese 43 secondi di standing ovation alla fine della romanza Recondita Armonia e ben 46 dopo l’aria E lucean le stelle.
I giornali americani, che sono molto più attenti di quelli italiani nel seguire il bel canto forse perché è italiano e ce lo invidiano, lo battezzano «il nuovo Pavarotti» e il New York Times, con un critico che al Metropolitan era di casa da decenni, scrisse che «se Licitra resisterà alla voglia di essere il “quarto tenore” (con riferimento al trio Pavarotti Carrears Domingo -ndr ),potrà fare molta strada».
Un’incoronazione proprio come fu, sempre lì al Metropolitan,ilRigolettodel 1903 perCaruso.
Da allora il suo repertorio si allarga, le note, specialmente quelle acute, diventano sempre più sicure, ferree, e lo fanno entrare nel ruolo del titolodi Andrea Chénier o nel Turiddu diCavalleria rusticana dove, ecco, lì era perfetto, perché in quel siciliano che canta la serenata a Lola, c’era tutto di lui, Salvatore Licitra, il cantante lirico per caso,
l’emigrante per obbligo che era riuscito presto a spazzare via tutto, anche i dubbi, e a rimanere a braccia spalancate, il mento alto, gli occhi brillanti davanti al pubblico entusiasta dei teatri più importanti del mondo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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