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«Aiutate i piccoli malati» E con le offerte si pagano mega ville, feste e auto

MilanoHanno costruito le loro fortune monetina su monetina. Salvadanaio su salvadanaio. Caso disperato su caso disperato. Gli italiani pensavano di aiutare bambini malati, assolutamente bisognosi di cure costosissime, invece riempivano le tasche dei dirigenti dell’Amore del bambino, sulla carta una Onlus nata con le migliori intenzioni di questo mondo, nella sostanza una banda di persone senza scrupoli che aveva trovato il modo di vivere alla grande.
A leggere le carte del processo milanese, affiorato sui giornali nel 2005, si resta basiti: i salvadanai, posizionati in centinaia di bar e negozi di mezza Italia, raccoglievano cifre imponenti: nessuno è in grado di fornire numeri certi, ma la Guardia di finanza ritiene che i capi dell’organizzazione abbiano dirottato milioni di euro. Sì, una montagna di soldi che servivano soprattutto per lucidare il tenore di vita di questi signori: «Belle automobili, continue occasioni festose, lussuose ville dove trascorrere le proprie giornate», il tutto nella cornice «di un quadro desolante, di profonda miseria morale», come scrivono i giudici.
Insomma si faceva leva sui sentimenti più nobili, sull’altruismo, sulla compassione e la sensibilità di tante persone perbene, per rastrellare i denari che poi prendevano sentieri accidentati. E a scorrere le carte processuali si scopre che questo gioco sporco è andato avanti a lungo, troppo a lungo, addirittura dal 1995 al 2006. Undici anni nel corso dei quali diverse persone si sono avvicendate alla testa della Onlus. Eppure il meccanismo perverso non si è mai interrotto e, soprattutto, non è mai stato scoperto. Strano, ancora di più perché L’amore del bambino era regolarmente registrato fra le associazioni di volontariato riconosciute dalla Regione Lombardia. Nessuno però ha messo il naso nella contabilità, nessuno si è preso la briga di verificare, nessuno si domandato come mai di tante operazioni umanitarie sbandierate solo una minima parte sia arrivata alla conclusione.
Ma forse non è nemmeno questo il lato più disgustoso della vicenda. Quel che più rattrista è l’amara conclusione di questa storia: molti capi d’imputazione sono caduti per prescrizione, altri non hanno retto al vaglio dibattimentale. Risultato: le condanne, peraltro non ancora definitive, sono poca cosa rispetto allo scandalo suscitato: le pene oscillano fra i 3 e i 4 anni e mezzo. Se poi consideriamo che per tutti gli imputati si applica l’indulto, ovvero un robusto sconto di tre anni, allora si capisce che alla fine le pene sono puramente virtuali. Nessuno o quasi dei protagonisti di questa storia tornerà in galera dopo un veloce passaggio nel 2005. Uno scandalo nello scandalo. Reso ancor più indigesto dal fatto che dei soldi scomparsi sono rientrati solo 90mila euro. «Novantamila euro - spiega l’avvocato di parte civile Chiara Belluzzi - a fronte dei milioni finiti chissà dove o bruciati fra belle donne e belle auto. Il tutto sulla pelle di un pugno di bambini sfortunati.
La trappola aveva le forme di un volantino strappalacrime: «Aiutate i nostri bambini». E via con storie pietose: «Federica, affetta da artrogriposi agli arti inferiori e superiori, dopo i primi quattro interventi importanti necessita di alcuni interventi correttivi alle braccia». Come non dare una mano, anche solo infilando una moneta da pochi centesimi nel salvadanaio o con un bonifico su un conto bancario ad hoc?
I genitori dei poveri ragazzi firmavano un pezzo di carta in cui autorizzavano L’Amore del bambino a raccogliere fondi per le cure, le operazioni, gli eventuali viaggi all’estero. E così mettevano in moto il tassametro della solidarietà che, evidentemente, funzionava a meraviglia se la Onlus è andata avanti ad illudere quei disgraziati per anni e anni. Per di più sotto l’occhio della Regione Lombardia che con decreto del suo Presidente aveva iscritto nel marzo ’97 la Lab nel registro generale Volontariato. L’associazione, secondo i giudici, ha avuto nel tempo tre gestioni: quella di Antonio Andrisani fino al 1999; quella di Francesco Giusto dal ’99 al 2002 e quella di Marino Antonetti fino all’intervento della polizia giudiziaria nel luglio 2005. Incredibilmente, si comportavano più o meno tutti allo stesso modo: confusione contabile, ammanchi, stili di vita da divi dello spettacolo.
Chissà quanto sarebbe durato ancora il gioco se qualche mamma, disperata perché i soldi promessi non arrivavano, non si fosse messa in moto denunciando i fatti. E nello stesso tempo i reparti delle Fiamme gialle non avessero segnalato il fiorire di salvadanai e conti di beneficenza. L’indagine del pm di Milano Gaetano Ruta, lo stesso di Wanna Marchi, ha confermato i peggiori sospetti: la Lab pensava agli interessi dei propri soci più che a salvare vite umane; naturalmente, in qualche caso, i denari venivano effettivamente consegnati ai genitori dei ragazzi e servivano per pagare le trasferte della speranza all’estero, ma non sempre era così. Per Ruta la Lab era un’associazione a delinquere.
In aula però le cose vanno diversamente: il tribunale sostiene che Andrisani, Giusto e Antonetti non hanno condotto i loro traffici insieme ma in epoche successive. Cade così il reato associativo. Non solo: quasi tutti gli imputati, compreso Andrisani, vengono salvati dalla prescrizione. È troppo tardi. Solo Francesco Giusto viene condannato: prende 4 anni mezzo, 1 e mezzo con l’indulto.

Nell’altro procedimento, con rito abbreviato, le pene sono ancora più miti e Antonetti se la cava con 3 anni e 4 mesi. Per gli imputati, ma solo per loro, il peggio è passato. Le famiglie dei bambini, invece, proseguono il loro difficile cammino della speranza. Nell’attesa, uno dei piccoli è morto.

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