Dal Manzanarre al Reno, da Ventimiglia alla Spezia, l'estate ha ufficialmente spalancato il suo sipario.
Incurante del cupo giugno monsonico, in barba al malefico avvicendarsi del Ninjo con la Ninja e indifferente ai barbosi parametri di Kyoto, in quel della Liguria il caldo sembrerebbe aver finalmente marcato l'esordio stagionale al consueto ritmo delle «flip flop».
Dalla centralissima via Venti fino in corso Europa, è infatti tutto uno «sciabattare» selvaggio di infradito gommate, primo sintomo caciarone della bella stagione che si appropinqua.
Se in tempi non sospetti la mitica direttrice di Vogue America, l'indiscussa icona di stile Diana Vreeland, suggeriva ai suoi lettori di gettare un occhio alle scarpe per carpire l'animo delle persone, oggi, trenta e passa anni di moda dopo e ad anni luce di stile, è inevitabile stopparsi e domandarsi da chi è realmente composta questa variegata moltitudine di amanti dell'infradito.
Spenti dunque i cellulari, di fronte a questo indecoroso spettacolo calzaturiero, appare quindi giusto e doveroso ritagliarsi cinque minuti spirituali a tacca azzerata per interrogarsi con mente libera e bella: che filosofia di vita si cela dietro lo strascinamento svogliato delle flip-flop? Quale visione globale? E soprattutto, quale animo inquieto si arrovella dietro la facciata lassista?
Anni di esperienza televisiva trascorsi imbambolati di fronte a «Sex & the City» ci hanno insegnato che se il tacco dodici (soprattutto quello di Manolo) rinvigorisce emotivamente e rende la nostra prospettiva sul mondo frizzante come una bollicina di pregiato Crystal, per una sorta di equazione matematica dell'eleganza, la ciabatta plasticata dovrebbe dunque sortire un effetto abbrutente/degradante sulle nostre già scarse capacità cognitive/intellettuali. Per non parlare poi delle drammatiche conseguenze che l'uso prolungato dell'infradito può generare a bomba sul nostro già indebolito senso critico, ridotto ormai ai minimi termini, o, se preferite, a termini terra-terra.
A uno sguardo più attento, dunque, il popolo della ciabatta strascicata apparirebbe come un fedele seguace di una nuova filosofia etica dell'indolenza, mixata a una visione apatica del globale: in definitiva, un fan devoto della sottocultura imperante dell'«apparire a tutti i costi senza alcun motivo». Strascicando rumoroso e sprezzante la propria infradito nello smog metropolitano, il ciabattaro convinto non rivendica infatti a gran voce al mondo la propria esistenza altrimenti inosservata?
Dal «cogito ergo sum» di cartesiana memoria, dunque, siamo precipitati inconsapevoli nel moderno girone infernale dello «sciabatto ergo sum»: calzo l'infradito, la strascico sui marciapiedi in barba alle ormai naftalinate regole del bon ton e vivo la mia vita con piglio pigro e apatico. Come d'altronde pigro e apatico è il mio polpaccio, incapace di sollevare dalla polvere il mio calcagno riottoso.
Quali conclusioni, dunque?
Che tutto sommato, alla vigilia di un'ennesima estate bullonaire, quello che ci serve non è un punto di vista, ma un punto di partenza. Perciò, alzata la classica bandiera bianca sul relitto del nostro buon gusto, sbattiamo lesti in valigia un bel paio di infradito finto-griffate. Senza dimenticare però gli intramontabili pinocchietto e canottiera.
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