Albertazzi e il prodigio della poesia

Quando Italo Calvino, nel 1984, fu invitato a tenere sei lezioni sulla letteratura all'Università di Harvard, non immaginava certo che, venticinque anni dopo, il suo posto sarebbe stato preso da Giorgio Albertazzi. Il quale oggi non incarna il personaggio dello scrittore ma si appropria della sua intima essenza. Rendendo finalmente pubbliche, cioè udibili, quelle mirabili intuizioni che l'autore di Marcovaldo non poté esprimere quando, colto da ictus mentre preparava l'ultima lezione, stava analizzando il senso profondo della forma narrativa. Sulla scena vediamo quindi Albertazzi, parafrasando con somma ironia l'invito racchiuso nella «Lezione» di Ionesco, a colloquio con un'allieva su un tema spinoso come il nuovo millennio. Sezionando, come fa un entomologo alle prese con un insetto misterioso, il prodigio di una rima baciata in cui si riflette la gravità della pesantezza o, viceversa, il privilegio della leggerezza. Scegliendo come pietra di paragone l'esempio additato da Calvino - che evocava la figura di Cavalcanti nel Decamerone di Boccaccio - il professor Albertazzi discetta sulla levità della frase poetica. Piegando la voce in ogni inflessione possibile, dalla comunicazione diretta fino al più tenue sussulto del suono. Lucrezio ed Ovidio diventano così i precursori della leggerezza del verbo: il primo che, giocando con l'atomismo, sposò all'arte la scienza e il secondo che, nel pitagorismo, scoprì l'essenza indefinibile del mistero. Subito dopo Albertazzi saluta in Guido Cavalcanti il poeta dell'impulso che levita nell'aria, e nell'autore della Divina Commedia il poeta che dà concreto rilievo all'immensità del cosmo. Coinvolti entrambi in prima persona, enunciati fino a domenica dal palco del Franco Parenti (info: 02-59995206, www.teatrofrancoparenti.it) a spartirsi il dominio della letteratura. Subito dopo l'attore, travalicando Calvino, dimostra che è stata Francesca da Rimini e non Beatrice la vera musa dell'Alighieri. Dato che sarà la passione e non la sublimazione dell'amore a regnare nel nuovo millennio. E qui Albertazzi trascende Calvino. «Mi scindo nella più laica delle trinità - confessa ispirato -. Sono Calvino, sono Giorgio e al tempo stesso Amleto, il personaggio che non ho mai abbandonato da quando, nel'64, ne indossai le spoglie nello spettacolo di Zeffirelli.

Senza sfogliare quel libro nero che allora, accompagnando ogni mio gesto, spiegava ed arricchiva la conoscenza che il principe di Danimarca aveva dell'universo. Dato che oggi», conclude con enfasi, «ho conquistato la leggerezza di Cyrano di Bergerac, il poeta che inventò sulla carta le più strepitose macchine volanti che si possano immaginare».

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