Albertini a Kabul nell’ospedale della solidarietà

Il sindaco incontra Strada e visita le piccole vittime della guerra

Giannino Della Frattina

nostro inviato a Kabul

Un ospedale è un posto che mette angoscia. Un ospedale a Kabul ne mette molta di più. Anche se quello di Gino Strada è perfetto e non ha nulla da invidiare ai più prestigiosi trauma center americani perché i numeri sulla mortalità dei pazienti sono addirittura migliori. Angoscia tanta, soprattutto se a cercare di guardarti dal fondo di un lettino c’è un bimbo a cui è esplosa una mina in faccia. Cerca, perché un occhio l’ha perso e l’altro stanno cercando di capire come fare a salvarglielo. I genitori lo vogliono portare in Pakistan, l’équipe di Emergency cerca di convincerli a cercare una strada più credibile. La mamma è lì. Accudisce il figlio e forse per amor suo s’è convinta che le donne, anche togliendo il burqua, non si trasformano in pietre nere come raccontano i talebani.
In Afghanistan gli ordigni disseminati nel terreno sono la vera tragedia. Tutti ne hanno messi: russi, talebani, terroristi, ribelli. Ora ce ne sono forse otto milioni, ma nessuno sa dove siano perché non ci sono mappe e le piogge li trascinano dovunque. Ieri una ragazza è saltata sulla mina che il padre aveva messo davanti a casa per difendersi dai ladri. Assurdo. Ma non a Kabul. È arrivata sfracellata al centro ortopedico creato sotto l’egida della Croce Rossa dal dottor Alberto Cairo. Straordinaria figura, non solo di medico.
La visita in Afghanistan del sindaco Gabriele Albertini, accompagnato dall’ambasciatore Ettore Francesco Sequi e da Andrea Vento, responsabile delle Relazioni internazionali di Palazzo Marino, passa anche attraverso le cattedrali della solidarietà costruite qui dal genio e dal cuore di milanesi. A cui anche il Comune ha dato il suo contributo. Una sede e finanziamenti ad Emergency, soldi anche a Cairo.
Denaro da spendere a Kabul dove i piccoli ancora oggi saltano giocando con gli ordigni, si sfracellano sui parabrezza delle auto guidate come pazzi dai genitori o cadono dai tetti inseguendo gli aquiloni. «L’ultima è morta solo ieri - racconta un chirurgo di Emergency -. Giocava con la sorellina nel cortile di casa e le hanno tirato una bomba a mano. Così tanto per fare. Lei non ce l’ha fatta, con l’altra ci stiamo provando ma sarà molto difficile». Non sempre i miracoli riescono qui dove i normali (si fa per dire) ospedali sono semplicemente luoghi dove i familiari depositano i pazienti. Luoghi dalle condizioni igieniche raccapriccianti perfino qui dove già tutto è normalmente a rischio infezione e contagio. Non ci sono medici, non ci sono infermieri. Cibo, garze, medicine devono essere comprate dai parenti.
«Gino sta operando un bambino», accoglie Albertini uno stretto collaboratore. L’incontro sembra saltare e, invece, Strada arriva. Stravolto, ieratico con i suoi capelli argento, la divisa da chirurgo, le scarpe senza calze («La milza. Sarà che lo tiriamo fuori»). Trecentocinquanta ricoveri al mese in questo che era un ex asilo bombardato dai russi facendo strage di bambini. Ma da gennaio sono raddoppiati per colpa degli incidenti e delle armi. Otto milioni di dollari all’anno costa far funzionare le tre strutture di Emergency specializzate in chirurgia di guerra e traumatologica che in sei anni hanno salvato un milione di afghani, quasi il 5 per cento della popolazione totale. Per risolvere un qualunque litigio qui oggi si spara o si tira fuori il coltello. «La criminalità cresce molto e qualcuno finisce perfino col rimpiangere i talebani. Allora almeno c’era più sicurezza». Ma il problema non finisce con l’operazione. «Poi - spiega Strada - bisogna trovare loro un futuro, un lavoro. Da noi prendiamo gli ex pazienti, magari a far le pulizie. Se sono senza braccia ce ne vorranno due. Pazienza, diamo da mangiare a due famiglie. In Panshir all’interno del nostro ospedale anche le donne lavorano alla fabbricazione di tappeti. Sono dentro e così almeno nessuno fa storie. È un bell’esercizio staccare la medicina dal profitto». Esperienze che lasciano anche Albertini senza parole. E allora Strada sdrammatizza. «Si è candidata la Moratti? Io non sono di parte (e anche i suoi si mettono a ridere, ndr), ma allora vince Ferrante. Sindaco mi raccomando, stia lontano dalla campagna elettorale».
Giubbotto antiproiettile e si riparte. La scorta degli incursori dell’esercito, arrivati da Livorno perché chiamati a Kabul dal generale Mauro Del Vecchio nel suo turno di comando della missione Isaf, ha sempre i mitragliatori puntati. Di là dalla città drammi e difficoltà sono gli stessi. «Dall’87 curavamo solo i feriti di guerra - racconta Cairo -. Oggi tutti. Ma ancora almeno due al giorno arrivano maciullati da una mina». Fa strada e mostra il laboratorio dove, quasi tutti con uncini o gambe e braccia artificiali, costruiscono protesi. Sei centri ortopedici e 73mila pazienti che aumentano di 6mila all’anno.

Un bambino piccolissimo cerca di imparare a camminare nuovamente. Il braccio destro di Cairo era uno sminatore. Oggi non ha una gamba e insegna agli afghani che per tutti c’è un futuro.
giovanni.dellafrattina
@ilgiornale.it

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