Era il figlio del giornalista. Come dire: un figlio di papà. Girava in Porsche capelli al vento, aveva studiato, amava godersi la vita. Insopportabile per il totalitarismo di Heriberto Herrera, il paraguaiano del «movimiento». Alberto Reif, figlio di Gianni E. Reif, uno che inventò giornali, scatenò polemiche, arrivò nellInter sbagliata. Si era fatto largo nella Spal e nel Vicenza, posti ideali per giocare e divertirsi. Aletta tutto corsa e cross. «Mi scelse Foni, ma venne cacciato prima di cominciare. Scelsero Heriberto e io volevo stracciare il contratto. Gli juventini mi avevano già descritto il tipo: nessun permesso, guai a chi fumava, di notte svitava le lampadine delle stanze per evitare che uno leggesse. Mio padre mi insultò e mi costrinse ad andare. Allora i giocatori erano prigionieri delle società».
Oggi Reif ha 61 anni, vive a Venezia, è direttore generale del garage San Marco, il più importante della città: 50 dipendenti. E pensa sempre che la vita vada goduta. Giocò due anni in quellInter. Anni importanti: un secondo posto in campionato (69-70) e uno scudetto (70-71) dopo la cacciata di Heriberto, con Invernizzi in panchina. Giocò poco (16 partite tra coppa e campionato). Segnò un solo gol, in coppa. Meteora che ottenne il massimo con il minimo sforzo. «Ma non mi divertivo: Heriberto non concedeva niente. Mai un permesso. Pensi che mi allenavo alla mattina e, al pomeriggio, correvo a Verona o Vicenza a giocare a calcio con i miei amici». Quellanno arrivò anche Boninsegna. «E oggi, quando mi vede, mi dice: ciao rovina calcio italiano». Vero? «Solo perchè davo lidea di uno a cui non fregasse niente». In realtà era difficile soffiare il posto a Jair. «Heriberto mi snaturò. Voleva che buttassi palla in mezzo, eppoi correre, crossare, tornare a centrocampo. Serviva un portatore dacqua».
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