Si è armato di pazienza, di mappa e di penna e ha deciso di censire le «moschee non ufficiali» sparse allombra dei sette colli. Ahmad Ejaz, pakistano, è membro della Consulta islamica, organo del ministero dellInterno. Ed è stato lui a compilare lelenco presente sul sito Romamultietnica.it. «Ma non è stato facile - spiega - ho fatto una grande fatica perché venisse fuori una lista abbastanza esaustiva».
Ha trovato molta diffidenza?
«È sempre viva la paura di essere schedati. Sulla carta si tratta di associazioni culturali che non sono riconosciute dal Governo come luoghi di culto. Ma il punto vero è che fanno fatica a creare coesione con il territorio, spesso è del tutto assente il dialogo con gli italiani. E poi, specie quando nascono in luoghi improvvisati, possono diventare pericolose».
In che senso?
«Non si sa chi è limam, qual è la sua formazione, da dove arrivano i fondi e a che scuole di pensiero si fa riferimento. Spesso coltivano conflitti intestini e ce ne sono alcune che predicano contro lOccidente, non in maniera diretta, ma dicendo che i valori dellIslam sono superiori. Inoltre sono troppo magmatiche, impossibili da controllare».
Può fare qualche esempio?
«Oggi sono in un appartamento in affitto, mentre domani, magari per un banale litigio, finiscono in uno scantinato in una via parallela. Cambiano imam ogni settimana oppure celebrano matrimoni tra persone già sposate, creando situazioni di poligamia che in questo Paese sono vietate. Inoltre non predicano in italiano, e non va bene: non permettono di essere capiti da tutte le comunità presenti a Roma e non aiutano le seconde generazioni a integrarsi».
In sostanza qual è il rischio che si corre?
«Non voglio essere tragico, ma se si prosegue su questa strada, senza arrivare a veri e propri attentati, il conflitto potrebbe acuirsi. Lincontro non deve mai essere scontro».
Allora non sarebbe più semplice per i musulmani ritrovarsi tutti alla grande moschea?
«In teoria sì, ma in pratica nessuno degli immigrati abita ai Parioli.
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