Allevi a Castellazzo aspettando «Joy»

Antonio Lodetti

Giovanni Allevi non è tipo da star seduto a lungo sugli allori. La sua creatività è nota a tutti e non solo in campo musicale (non dimentichiamo che ha avuto un successo strepitosi al Blue Note di New York dopo aver telefonato direttamente, con il suo inglese maccheronico, al temutissimo proprietario Stephen Bensusan). Da qualche tempo sta portando in giro (dal Conservatorio di Milano ai club di Hong Kong) in concerto i brani del fortunato cd No Concept e lo farà anche stasera a Villa Arconati, alterandosi alla band di Yann Tiersen. Ma ad ogni spettacolo aggiunge un tema nuovo, un’improvvisazione, un bozzetto che preannunciano il suo nuovo disco. Ormai è pronto, naturalmente fatto di oblique e anarchiche composizioni per pianoforte solo, si intitola Joy e uscirà il 29 settembre. È ormai tutto pronto; ultimi show e poi Allevi dal primo agosto si chiuderà in studio per registrare. Ultima occasione quindi per apprezzare a Milano i «numeri» del maghetto del pianoforte, quello che incrocia i suoni classici con quelli moderni tagliandoli poi con i ritmi del jazz e con l’entusiasmo dei suoi sogni visionari.
Perché ciò che colpisce di più in Allevi è il suo entusiasmo e la sua sincerità nel proporre una musica per un pubblico che - come lui - è fatto di poeti e sognatori. Si è fatto notare collaborando con Jovanotti (che ha contribuito a lanciare il suo primo disco 13 dita) ma poi ognuno ha preso strade diverse. Quella di Allevi un po’ più alta, e cerca di rendere popolare e accessibile a tutti - senza svilirla - la musica accademica. Di portarla nelle strade ai giorni nostri. Il suo motto è: «Viaggio molto in treno e per ispirarmi e non perdere il contatto con la realtà a volte scrivo ispirandomi alla gente che mi circonda, cercando di capire i loro pensieri». Un’altra delle sue massime è: «La musica classica è sempre stata pop, nel senso che è sempre stata vicino alla gente. Purtroppo recentemente si è arroccata in una torre d’avorio». E la sua è musica semplice ma intensa, o meglio «la semplicità è la complessità risolta». Ama Liszt («per il suo virtuosismo»), Chopin («perché non è mai banale anche nell’elaborare la melodia») e i grandi pianisti jazz («Thelonious Monk, Lennie Tristano, Keith Jarrett; per fortuna li ho ascoltati tardi perché sono talmente seduttivi che sarei diventato un clone»).

La sua sfida è sempre la stessa, stare in equilibrio tra stili diversi creando un suo stile perché «la contaminazione è debole e soggetta alle mode e sfidare il pubblico col solo pianoforte può diventare un’impresa temeraria».

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