Gli altri chiaccherano, il governo lavora e cattura i latitanti

L’ultimo successo ieri, con la cattura di uno dei capi della Sacra corona unita. Da quando Berlusconi è a palazzo Chigi almeno 15 i superboss presi dalle forze dell’ordine. E le organizzazioni criminali spesso perdono anche la loro cassaforte

Gli altri chiaccherano,  
il governo lavora 
e cattura i latitanti

Le polemiche, le accuse, le insinuazioni. Poi i risultati che parlano un’altra lingua: per i grandi latitanti e per la criminalità organizzata è tolleranza zero. La tolleranza zero del governo Berlusconi. L’ultimo a finire in manette, alla vigilia di Pasqua, è Francesco Campana, nome sconosciuto all’opinione pubblica ma non alle forze dell’ordine che lo ritenevano fino a ieri uno dei capi della Sacra corona unita, la mafia pugliese.

Tutti i giorni piovono accuse: il governo Berlusconi vara leggi e provvedimenti che favoriscono la criminalità, le mafie dilagano, alcune zone del Paese, che non arriva a fine mese per la crisi economica, rischiano pure di finire in mano a boss e picciotti. Peccato che boss e picciotti entrano in galera con ritmi da catena di montaggio. Basta guardare il calendario del governo Berlusconi, insediatosi nel maggio del 2008, per scoprire che in meno di tre anni è stato dato scacco matto ai capi di tutte le mafie - purtroppo in Italia ce ne sono almeno quattro - e che la lista dei trenta latitanti più pericolosi è stata spolpata da carabinieri, polizia e guardia di Finanza. L’uovo di Pasqua porta dunque le manette per Francesco Campana. Il questore di Brindisi, Vincenzo Carella, non usa mezze parole per spiegare l’importanza della cattura: «È il colpo definitivo alla Sacra corona unita». Sulla stessa lunghezza d’onda il ministro della giustizia Angelino Alfano: «La Sacra corona è stata decapitata».
Una notizia da incorniciare. Ma non solo. È il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia a stilare con Il Giornale il bilancio più sincero: «Oggi la latitanza media di un capomafia è sensibilmente ridotta». Un tempo venivano inghiottiti dall’oscurità, talvolta per decenni, oggi finiscono rapidamente in trappola. Basta sfogliare i giornali degli ultimi anni per registrare i continui colpi subiti da tutte le mafie: Cosa nostra, camorra, ’ndrangheta, Sacra corona unita. Il 25 giugno 2010 viene preso a Marsiglia uno degli ultimi boss in circolazione: Giuseppe Falsone, il numero uno di Cosa nostra nell’Agrigentino. Era scappato all’estero, si era sottoposto ad un intervento di plastica facciale, ma non c’è stato niente da fare. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni commenta entusiasta: «Dei trenta superlatitanti questo è il venticinquesimo che catturiamo». Basti dire che lo stesso giorno, il 5 dicembre 2009, cadono nella rete due nomi eccellenti: Gianni Nicchi a Palermo e Gaetano Fidanzati a Milano. Cosa nostra è ridotta all’osso: «Dei capi storici della generazione stragista, è rimasto latitante solo Matteo Messina Denaro», aggiunge Ingroia.

Non basta. Perché oltre a generali e gregari le organizzazioni perdono spesso anche la cassaforte. «Al 30 novembre 2010 - spiega da Caserta Maroni - i beni sequestrati alle organizzazioni mafiose sono stati 30.324 per un valore complessivo di 15 miliardi di euro, con un incremento del 300 per cento sullo stesso periodo del 2009». Cifre impressionanti e in crescita esponenziale, anche se questi numeri dicono molto, ma non tutto e il territorio, specie in alcune zone del Sud, resta sotto il controllo della criminalità organizzata. Il merito di questi successi va ovviamente ripartito a tutte le forze sul campo coordinate e sostenute dal ministero dell’Interno, il grande «sponsor» della lotta al crimine.

Certo, si potrebbe fare di più nella lotta al riciclaggio», nell’inseguire i flussi dei capitali che rimbalzano da una finanziaria all’altra, qua e là per il mondo. Ci mancherebbe. Ma la retorica sullo sfascio del Paese, sulla sua arretratezza e sulla sua incapacità di contrastare il crimine dovrebbe arrendersi alla realtà.

Le inchieste più recenti, lontane dagli schemi del politicamente corretto, ci svelano una verità sorprendente: furono i padri della patria, a cominciare dall’allora guardasigilli Giovanni Conso, a chinare la testa davanti a Cosa nostra nella stagione sanguinosa e difficilissima delle bombe. Nel 1993. Allora Conso revocò il carcere duro per centinaia di mafiosi. Oggi centinaia di mafiosi vanno in carcere. E ci restano.

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