Jake LaMotta, un toro scatenato a spasso per il Bronx

Figlio malvisto di immigrati, indomabile incassatore, alcolista per vizio, attore per caso: le mille anime di un pugile che non è mai andato al tappeto

Jake LaMotta, un toro scatenato a spasso per il Bronx

Lo circondano in quattro, ma lui paura non ne ha. In quel vicolo fetido i tombini sbuffano e gli sguardi si abbassano. Ha il baricentro basso, quindi molleggia veloce in circolo, per tenerli tutti nella coda dell’occhio. Ma sono troppi, anche per uno come lui. Possiede la tracotante esuberanza dei giovani, è aggrappato al terreno da due cosce grosse come eliche e quando indovina il gancio giusto ti spedisce a fare conoscenza con il marciapiede. Oggi però le prende, di santa ragione. Ma al tappeto non ci va. Incassa, si piega, non cede. La gang che l’ha assalito sfila via soltanto parzialmente compiaciuta.

Giuseppe LaMotta, che poi sarebbe suo padre, è un messinese pratico. Immigrato qualche anno prima per trovare fortuna in America, è inciampato nella grande depressione. Il pericoloso Bronx è l’unica delle destinazioni possibili quando il portafoglio è scarico. Le infiltrazioni mafiose che dilagano in quel periodo, una costante accomodata nei suoi giorni. Quindi quando vede Jake tornare a casa barcollante, la faccia livida e le ossa incrinate, fa una cosa. Fruga tra i suoi attrezzi e, senza proferire parola, gli consegna uno spaccaghiaccio. Poi gli assesta una pacca benevola sulle spalle doloranti.

Da quel giorno Jake se lo porta sempre dietro. Le risse sono un condimento quotidiano quando oscilli in equilibro sopra una cricca malavitosa. Lui estrae l’arnese contundente e lo rinfodera una quantità infinita di volte, sempre affondando gioiosamente nella contesa. Più lo pesti, più si carica. Ci è abituato fin da piccolo, a menare le mani. Uno sguardo di traverso, del resto, è sufficiente a sobillare gli istinti più cruenti.

Poi un giorno se lo scorda, lo spaccaghiaccio. Si fissa le tasche, accerchiato, ancora una volta. L’unica arma pensabile diventano i pugni nodosi al termine delle sue braccia corte e gonfie. Inizia a scaricarli in sequenza, conquistando in fretta una reputazione da duro che diventa bardatura impalpabile. Il crimine inizia a girargli al largo, ma lui ci si rinfila dentro tuffandosi di petto. Facile cascarci, quando tutt’intorno sibilano pallottole, i cadaveri ribollono nel calcestruzzo e i controsoffitti ingurgitano fiumi di cash. Lo sbattono in riformatorio per rapina. Il carcere è quello di Upstate.

Potrebbe apparire l’epilogo precoce di una vita costellata di sventure. Invece è il click che stappa la sua carriera da pugile. Costretto per giorni interminabili a scontare i suoi peccati, sfoga la frustrazione accumulata sul sacco da boxe. Affina le sue rudimentali movenze. Assorbe pugni chiusi con quel mento da bisonte, sempre sorridendo. Ora conosce la vita che lo attende fuori da lì.

Quando non ha nemmeno vent’anni combatte il suo primo match da professionista. Pesi medi, l’avversario è il temibile Ray Robinson, ribattezzato “Sugar” dal suo manager George Gainford, perché il suo stile è dolcemente letale. Il pugile di zucchero è la sua naturale antitesi: regale nei movimenti, edonista nel portare i colpi, eppure tremendamente efficace. Jake è tutto l’opposto: arruffone, incline alla zuffa anche sul ring, imposta balletti tribali e scarica jab imbevuti di rabbia. Finisce male, ma la rivincita è faccenda rapida: nel febbraio del ’43, nella chiassosa Detroit, LaMotta diventa il primo pugile a sconfiggere Ray. Ora il nostro gongola, ma è solo una tacca assestata su un duello infinito.

Tra l’altro Robinson è probabilmente il pugile più completo della storia. Lo ammette lo stesso Jake. Lo conferma un certo Muhammad Ali. E c’è uno scontro che, forse meglio di qualunque altro, identifica lo spirito dei due rivali.

14 febbraio 1951. Chicago. LaMotta si presenta scarico. Robinson è esplosivo. Jake incassa una quantità immane di colpi fin dalla prima ripresa. Bascula penosamente sul ring mentre Sugar affonda i pugni dentro le sue carni, ma non crolla mai. Il suo manifesto non potrebbe essere più limpido: potrebbe mollare, ma va avanti per 13 lunghissimi round, prima di uscirne tumefatto e sconfitto. “Il massacro di San Valentino”, titolano i giornali. È il match che segna l’epilogo di una carriera surreale, fondata sulla resistenza estrema al dolore per sfinire l’avversario. “Fui in grado di convincere il mio corpo che nessuno poteva farmi male”, confesserà Jake in seguito.

LaMotta - De Niro

La vita che si apre dopo il pugilato è un balletto incerto tra la gloria e lo sfacelo. LaMotta affonda nel vizio dell’alcolismo. L’inclinazione alla rissa riaffiora di quando in quando. La passione sfrenata per le donne gli causa più di un grattacapo con sua moglie e i mariti altrui. Ad un certo punto compra un bar a Miami, per tentare di rigare dritto. La carriera da imprenditore non gli dispiace, ma sente di avere qualcos’altro che ribolle dentro. La sera indossa abito e cravatta e si disimpegna nei locali facendo stand up comedy.

Poi un giorno lo riconosce Martin Scorsese e Jake imbocca l’ennesima curva di un’esistenza frastagliata: allena De Niro per “Toro scatenato” e comparirà in molte altre pellicole.

È l’appagante coda di un saliscendi imperterrito. Una carezza racchiusa dentro una foresta di pugni incassati.

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