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Kim Duk Koo: morire sul ring per sentirsi vivo

Il pugile sudcoreano franò al suolo al termine dell’incontro di Las Vegas contro il rivale Ray Mancini, l’estremo rifiuto di arrendersi come rivalsa

Kim Duk Koo: morire sul ring per sentirsi vivo
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Il paralume è ruvido, ma se preme con la punta del pennarello lo incide lo stesso. Sono soltanto tre parole, sufficienti a cicatrizzare il suo mondo. Raggomitolato sul bordo del letto, la testa racchiusa tra le ginocchia per indovinare la concentrazione giusta, infila un respiro ritmico e alza di nuovo lo sguardo verso quella scritta. “Vivere o morire”. Kim Duk – Koo un’altra strada non la contempla. Trionfo o annullamento. Gloria imperitura o polvere. La vita è già una biforcazione infida, ma inevitabile. Forse, quando va finalmente a dormire, ripensa a sua moglie. Al figlio che stanno aspettando. Legittimo. Non sa ancora che domani morirà.

Kim, un pugno alla povertà

Socchiudendo le palpebre, gli sembra di poter sentire quella brezza che accarezza le guance. Gangwon negli anni Cinquanta è un posto logorato dalle contraddizioni: spiagge lunghissime adombrate da rigogliose pinete, ma il paradiso è di plastica. Tutt’intorno esplode una povertà lancinante. La Corea è squassata da una conflitto intestino che ha lasciato solchi profondi. Il Paese è allo stremo. La famiglia di Kim fatica tremendamente ad appiccicare il pranzo con la cena. Per cavarsela, si mette a fare il lustrascarpe a tempo pieno. Dura fin quando non scorge un riflesso inedito dietro al vetro appannato di una brulicante strada cittadina. Dentro, un gruppo di ragazzi si scambia pugni contundenti. Fa cigolare la porta. Perlustra i locali. Annusa gli ambienti. La boxe scansa le iatture della vita. Un guantone lo invita a salire sul ring.

Intuizione e coraggio

Immaginate un fuscello di 1,68 che fluttua scattoso per il ring, precipitandoti addosso una rabbia belluina. C’è tutta la voglia di rivalsa di uno che è riemerso dallo squallore, in ogni singolo pugno recapitato da Kim. E' agile come nessun altro nel circuito dilettantistico. Può fendere l’aria e i corpi altrui con una quantità di colpi ben superiore alla media. E poi c’è questa cosa del coraggio che sfocia in ostinazione sfrontata: Kim Duk - Koo non indietreggia. Mai. Anche quando la guardia che ha montato fa acqua. Anche quando si ritrova sguarnito da appigli, sotto le grandinate di destro - sinistro inferte dagli avversari. La faccia livida, gonfia, a tratti deforme, contiene quasi sempre un sorriso. Sa che alla fine la spunterà lui. Sa che da qui non vuole tornare indietro. Nemmeno di un passo soltanto. La gente ama la sua genuinità. In questo incipit convulso e glorioso, qualcuno gli incolla addosso il nome di Gidae, l’intuizione.

Una carriera folgorante

Non serve troppo tempo prima che le sue qualità lo sollevino dall’angustia delle ristrettezze. Sgomita, furente, nei palazzetti minori. Pugni svelti come i suoi pensieri. Tra i dilettanti inanella rapido 29 successi e 4 sconfitte. Abbastanza per ringalluzzire la pletora di manager che affolla i piani meno nobili del pugilato asiatico, in cerca di uno scintillio. Passa ai professionisti, ma non cambia spartito. Diventa campione dei pesi leggeri nel suo continente. Inanella una sfilza di vittorie da far tremare i polsi. Forse adesso ha una cintura appesa alla vita, ma ogni colpo è carico della stessa rabbia di sempre. Da dove vieni non puoi dimenticarlo mai.

Il guanto di sfida di Bob Arum

La boxe tribale e romantica di Kim non è un disco destinato a passare in sottofondo, in una qualche stazione radio di periferia. La notizia di questo pugile indemoniato arriva presto oltreoceano. Robert Arum, detto Bob, alza gli occhi dal giornale, pensoso. Forse questo tizio è quel che ci vuole per dare corda al suo Ray, riflette. Il suo pupillo, che di cognome fa Mancini, è il fresco detentore del titolo WBA nei pesi leggeri. Fisico levigato, incarnato olivastro, espressione da sciupafemmine e sangue siciliano a intasargli le vene. Segni particolari: ha perso un solo incontro. Potente, acuminato, ferale. Non c’è dubbio che vincerà lui, ma Bob comunque non intende rischiare. Serve un avversario che lo metta alla prova per qualche round, piegandosi poi al ruolo di vittima sacrificale. Kim riceve l’invito. Guarda la moglie, in attesa del loro bambino. Per lui è sempre questione di guerra personale. Annuisce e vola negli States.

Las Vegas: si muore un po’ per poter vivere

Così adesso eccolo lì. Riannodando i fili della storia, lo ritrovi ciondolante per quella stanza d’albergo asettica, subito dopo aver vaticinato il suo futuro, il pennarello ancora fumante, il paralume sfregiato. Fuori, oltre la vetrata vicina al letto, Las Vegas è già un immenso arnese che si stiracchia. Lo scontro si terrà in un’area esterna al Caesar Palace. Per gli allibratori non c’è storia. Solo Mancini pare perplesso: “Sarà una guerra”, profetizza. Dodici anni prima di oggi - che è il 1982 - Caterina Caselli aveva rilasciato un nuovo singolo in Italia. Parlava di una storia d’amore che finisce. Una strofa faceva “si muore un po’ per poter vivere”. Due mondi lontanissimi, certo. Eppure incollati da un inizio e da una fine. Dalla necessità di misurarsi con la morte per sentirsi vivi. Provate a canticchiarla mentre Kim infila la porta e scivola verso il ring. Suonerà familiare. Il fatto è che lui prende la cosa alla lettera.

Il rifiuto di arrendersi come rivalsa: la fine sul ring

Gil Clancy e il leggendario Sugar Ray Robinson commentano l’incontro. Tutt’intorno al quadrante di plastica che ospiterà la tenzone, ali di folla giubilante. Fucilata di fischi per Kim. Applausi da spellarsi le mani per Ray. Si comincia. La trama viene subito squarciata e riscritta. Mancini è elegante, potente e chirurgico come sempre. Quello che non torna è l’impeto del coreano. Combatte come se da questo incontro dipendesse la sua vita. Avanza a testa bassa, scomposto, ferale, irruento. Imbarca una quantità di pugni, ma altrettanti ne distribuisce. Ray è confuso. Il pubblico si gratta il capo. Che storia è questa? Kim sa che questa potrebbe essere l’occasione più grande della sua carriera. Rifiuta di indietreggiare e colpisce come un pazzo, fino al settimo round.

Notte scura dopo lo scintillio: il massacro finale

Per sovvertire un pronostico già scritto, Duk - Koo ha dato tutto quello che aveva. Quell’altro è più tecnico ed efficace. Lui l’ha dovuta mettere sull’istinto. Su di un Gidae animalesco. Ora che la contesa è inoltrata però le gambe si fanno più molli. Il fiato corto. Le braccia non mulinano più. Ray, che era parso in colossale difficoltà, se ne avvede in fretta. Scorge uno spazio e ci infila una quantità disumana di pugni. Kim incassa, ma non cede. Non può farlo. Si rifiuta categoricamente. Vanno avanti così per altri sei round. Una mattanza. Mancini in controllo, sempre a segno. Il volto tumefatto di Kim, le ossa sul punto di incrinarsi. L’arbitro annota, ma pensa che si possa continuare. Kim cade al tappeto e si rialza. Mancini sferra quaranta colpi in sequenza. Il coreano li assorbe tutti, rifiutandosi di cedere.

Kim a terra

Quattordicesima ripresa: il round della morte

Strascicato nel suo angolo, il volto tappezzato di lividi, Kim fa cenno che vuole continuare. La decisione che segna la fine della sua esistenza terrena. Mancini gli assesta due ganci che vengono recapitati all’altezza delle tempie. Poi un diritto destro esplosivo. Kim cade a terra, sbattendo la nuca. Si rialza per un istante, provando ad aggrapparsi alle corde. Il manifesto finale di una volontà disumana, incrollabile. Poi però si accascia. Non si rialzerà più. L’arbitro decreta la fine dell’incontro. La folla finalmente acclama il suo campione. Ci vuole una manciata di minuti per capire cosa sia successo al coreano. Lo trasportano in ospedale d’urgenza. Morirà dopo quattro giorni di coma, avverando la porzione sbagliata di quella lugubre profezia. La sua scomparsa produrrà effetti deflagranti. Sua madre si suiciderà, avviluppata dal dolore. L’arbitro dell’incontro anche, avvinto dai sensi di colpa. La promettente carriera di Ray sarà annacquata dalla depressione.

Kim non tornerà più, ma il suo messaggio rimane: conta sentirsi vivi, anche se il prezzo da pagare è la morte.

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