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Menare come Sandro Mazzinghi, il pugile antidivo

Moriva di fame in tempo di guerra, picchiava come un fabbro già a quindici anni, odiava i riflettori: un combattente differente

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A riassumere il pranzo si fa presto: un tozzo di pane. Poi mamma sfilava via con l'espressione mesta e il cuore pesante per quei due figli denutriti, ma questo è quel che passava la vita in tempo di guerra. Eppure ogni cosa, se la giri, mostra il lato positivo. Quella voragine nello stomaco poteva innescare una reazione necessaria, perché quando annaspi sul serio scopri di possedere risorse impensabili, le sfoderi, ti metti in gioco senza ritegno, perché tanto non puoi perdere più di quel che hai, cioè nulla.

Il primo a decidere di smetterla di grattare il fondo delle padelle era stato suo fratello Guido. Vivevano a Pontedera, i Mazzinghi, ma ancora non sapevano che quei pugni che raccoglievano briciole da succhiare avidamente sarebbero serviti per altri progetti. Per trasportarli altrove, lontano dalla fame e dallo strazio della povertà.

Dunque Sandro osservava il fratello muoversi con i guantoni infilati stretti ai polsi. Lo ammirava perché sapeva essere coraggioso in un mondo infestato da predatori voraci e opportunisti, che poi spesso sono la stessa cosa. E poi sceglieva la cosa che richiede più coraggio di tutte: si menava sul ring con gli altri uomini. Facendo così, e facendolo molto bene, aveva strappato un bronzo olimpico a Helsinki, nel 1952.

Allora era deciso. Ci avrebbe provato anche Sandro, che era di sei anni più giovane, classe 1938. Era salito sul suo primo quadrante a quindici anni e subito aveva iniziato a riversare in quel fazzoletto di metri quadri tutta la rabbia per le iatture che avevano costellato la vita sua e quella della sua famiglia. Grappoli di pugni, gambe che infilavano cadenze rapidissime, uno stile che certificava la sua ambizione: all'attacco, sempre, per inventarsi la vita e smettere di subirla.

Quell'attitudine gli era valsa una serie di formidabili pasti caldi. Aveva scoperto che con la pancia piena combatteva anche meglio. I muscoli crescevano rigogliosi sulle braccia e lungo il tronco: assomigliava ad una quercia saldamente radicata a terra. Tutto quel lanciarsi però gli avrebbe procurato qualcosa di più di un piatto di pastasciutta.

A venticinque anni non ha ancora mai combattuto per il titolo italiano, ma hanno appena ufficializzato la categoria dei Superwelter. Vale a dire le ben celebri 154 libbre. Ovvero 69 kg e poco più. Chance troppo appetitosa per allontanarsi dalla tavola adesso. Che di briciole ne ha ingurgitate fin troppe. Ora vuole addentare di più. Contro c'è l'esperto campione Ralph Dupas, americano che ha strappato la cintura a Dennis Moyer. Sembra una contesa impari, ma nel settembre del 1963, al Vigorelli di Milano, Sandro lo stende alla nona ripresa. Quello ci rimane stranito e invoca la rivincita, che si fa a Sidney. Giù anche lì, stavolta al tredicesimo round. Ora non ci sono più dubbi: Sandro Mazzinghi da Pontedera è campione del mondo. La Gazzetta titola "Mazzinghi pugno mondiale!". Un enorme pezzo del paese si identifica con il suo nuovo beniamino. "Ho scelto il pugilato perché due guantoni non costavano niente", ricorda le sue origini anche nel momento del trionfo.

Sempre in avanti, Sandro. Con la serenità di chi crede di avere già fatto conoscenza con la parte peggiore della vita. E invece la sorte ha in dote qualcosa di ancora peggiore. Una sera viene via presto da una cena a Montecatini. In macchina con lui c'è la moglie Vera Maffei. Fuori piove a diritto. In un tratto particolarmente infido le gomme perdono grip. La vettura corre dritta contro un albero. Lui viene sbalzato fuori e in qualche modo se la cava. Vera muore sul colpo. Soltanto due anni dopo aver vinto il titolo, la vita e la carriera sembrano finite per sempre.

Straziato nel fisico e deturpato nell'anima. Eppure deve tornare a combattere, perché le regole impongono che la cintura del campione debba restare un sogno condiviso. Sale di nuovo sul ring presto, forse troppo. E qui incrocia un altro intenso co-protagonista della sua vita, che pare anche l'esatto opposto di lui: bel faccino, passione per le foto e i riflettori, vita mondana certamente più frizzante. Sandro invece ripugna tutto questo. Schivo per carattere, scansa le occasioni pubbliche. Ma fatta salva questa differenza, Nino Benvenuti è un grandissimo pugile. Proprio come lui.

Chiaro che ne derivino scontri alla dinamite. Secchi di montanti che si incrociano con cumuli di diretti. Movimenti ferali di gambe e di bacino. Sopracciglia scheggiate, zigomi lividi. L'Italia adesso è divisa esattamente a metà, perché pure Benvenuti - il pugile di tutti, ma prima ancora degli esuli - è amatissimo. Sarà proprio lui a spuntarla nella sfida più decisiva contro Sandro, anche se in molti reclameranno contro un'intepretazione a loro dire fantasiosa del regolamento.

Ma se c'è un tratto del carattere di Mazzinghi che lo contraddistingue più di ogni altro, quello è l'indefettibile capacità di risollevarsi. Sconfitto e detronizzato, troverà comunque la forza interiore per tornare a sedersi nell'empireo dopo un sanguinoso match contro il coreano Ki-Soo Kim. Il manifesto più alto di una carriera sportiva immensa.

La rappresentazione ultima di un uomo che non si è mai arreso alle storture dell'esistenza.

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