Nino Benvenuti, il pugile degli italiani d'America

Faccia da film western, bello, spavaldo, vincente: per gli emigrati, o per chi era esule come lui, è stato la rappresentazione muscolare di un riscatto

Nino Benvenuti, il pugile degli italiani d'America
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Saliva sul ring oscillando le spalle con noncuranza, con quella faccia un po' così, da perfetto ribaldo. Da divo dei western e anche da uno che non riusciva a dubitare mai di sé stesso. Muscoli e sicumera. Difetto che si trasforma sovente in pregio se la distilli, fino a comprimerla tutta dentro ai guantoni. Nino Benvenuti era così. Centottantadue centimetri per nemmeno settanta kg di furente attitudine. Ma anche moltissima tecnica. Del resto mica vinci 82 incontri su 90 disputati in carriera, se sei uno normale. Non conquisti nemmeno il cuore degli italiani in America, tra l'altro.

Era iniziato tutto in quella palazzina affacciata sul mare. Ad Isola d'Istria, nel 1938, vivevano come una grande famiglia. Lui, mamma Dora, papà Fernando, i nonni e quattro fratelli. Uscivano in barca e cenavano a vino e pesce fresco. Era un posto placido e felice. Poi un giorno era cambiato tutto. Le feroci truppe del maresciallo Tito avevano iniziato a sfondare le porte. Uomini e donne gettati vivi nelle Foibe, violenze sparse, deportazioni nei campi di concentramento iugoslavi. L'isola gioiosa d'un tratto era zuppa di sangue e orrore. Toccava fuggire.

Nella vicina Trieste c'era la pescheria del nonno. Il primo rifugio sicuro. E il posto in cui la vita di Nino comincia a prendere forma. I suoi parenti lo iniziano gradualmente al pugilato, che in Italia è uno sport seguitissimo, nonché luogo di riscatto per chi vede trasfigurati in quegli eroi che menano ganci sul ring una forma di rivalsa interiore, per il solo fatto di sostenerli. L'acerbo Benvenuti assesta montanti ad un sacco di juta colmato di granturco e disposto in un angolo della casa. Poi inizia come dilettante: 120 successi, una sola sconfitta. Ruolino terrificante. Il mondo si accorge che è un fuoriclasse ai Giochi di Roma del 1960. Medaglia d'oro e premio di miglior pugile. Dietro di lui c'è un tizio che si chiama Cassius Clay.

Successi che espandono la gittata del suo nome oltre oceano. Dove si pensa che un pugile europeo non abbia chance contro i grandi boxeur americani. Pronostico sovvertito nella notte del 17 aprile 1967, al Madison Square Garden. Benvenuti è alla soglia dei trent'anni, nel pieno della sua maturità tecnica e fisica. Davanti però ha una montagna: Emile Alphonse Griffith, il campione del mondo statunitense dei pesi medi. Per i giornali Nino è spacciato, ma lui li sfida con la solita debordante tracotanza: "Sono io il numero uno". Media trasecolati: "Non gli manca certo la parola", sibila il New York Post. E invece Benvenuti vince nettamente ai punti. Incollati alla radio ci sono 18 milioni di italiani. Molti dei quali emigrati in america. Molti esuli come lui. In quel successo intravedono la loro rivincita sulle bassezze della vita. Nino Benvenuti diventa il loro eroe.

Monzon
Benvenuti sfida Monzon

Perderà nella rivincita, combattendo con una costola rotta, ma trionferà definitivamente nelle "bella" spedendo al suolo l'avversario caraibico nel marzo del 1968. Per le riviste del settore è inevitabilmente il pugile dell'anno. Di certo è il combattente eletto da un popolo. In Italia, invece, scambia effusioni molteplici con il rivale Sandro Mazzinghi: come due macigni che collidono, frantumandosi a vicenda, mai deponendo le armi. Quel che invece gli tocca, nella coda della carriera, contro un terribile pugile con la faccia da Indio. L'argentino Carlos Monzon lo sconfigge due volte e la rivincita resta il livido più grande, perché il manager Bruno Amaduzzi getta la spugna. Sarà un sentore aspro al termine di una carriera costellata di trionfi.

La disfatta insita soltanto nel cuore di chi ci tenta.

Alla fine, deposti i guantoni, si siede accanto a una moltitudine di successi. Il più grande però, resta quel gancio al cuore dei connazionali espatriati. Il suo colpo migliore.

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