Solo in America

La pallina che rovinò la vita ad un tifoso dei Cubs

Venti anni fa il gesto spontaneo di un tifoso fu l'inizio di una serie di sconfitte che costò a Chicago la finale Mlb. Da quel giorno riceve ancora minacce di morte. La storia di Steve Bartman, la maledizione della capra e come Chicago riuscì a vincere il titolo dopo ben 108 anni

La pallina che rovinò la vita ad un tifoso dei Cubs
Tabella dei contenuti

Ottobre nel calendario dello sport a stelle e strisce è un mese molto particolare, visto che si incrociano tre degli sport più amati oltreoceano. Se la stagione Nba è ancora dietro l’angolo, la regular season del football sta entrando nel vivo ma, tradizionalmente, l’inizio dell’autunno è il momento dei verdetti per il baseball. Questo sport allo stesso tempo bellissimo e frustrante, nato per far passare una bella giornata ai tifosi mentre ingurgitano hot dogs ed ettolitri di birra, è forse il più ricco di aneddoti e curiosità. Poche storie, però, sono così assurde come quella di un normalissimo tifoso che, in un giorno d’ottobre di 20 anni fa, ebbe la sfortuna di trovarsi al posto sbagliato al momento sbagliato.

Il suo gesto istintivo ebbe conseguenze talmente disastrose da rovinargli del tutto la vita. In questa storia c’è davvero di tutto; una maledizione, una capra puzzolente, 108 anni senza un solo titolo e una città che scaricò la sua rabbia e frustrazione su una persona del tutto innocente. Ecco perché questa settimana “Solo in America” vi porta a Chicago per raccontarvi la storia di Steve Bartman, il tifoso che tuttora riceve minacce di morte per il suo ruolo nella famosa implosione dei Cubs nel 2003.

La partita maledetta

Quel 14 ottobre 2003, tutte le stelle sembravano allineate sopra a Wrigley Field, lo storico impianto che ospita da sempre le gare dei Chicago Cubs, una delle squadre più famose e seguite del baseball professionistico. Dopo 95 anni senza una sola vittoria, la squadra della Windy City sembrava sul punto di staccare il biglietto per le World Series, visto che era avanti 3-2 contro i Marlins. L’entusiasmo a Chicago era alle stelle: nonostante fosse passato più di mezzo secolo dall’ultima vittoria nella National League, la squadra andava alla grande. Bartman, come tantissimi altri quel giorno a Chicago, era venuto per festeggiare: Mark Prior, il giovane lanciatore, aveva messo sette innings quasi perfetti in gara 2, contribuendo non poco al perentorio 12-3 col quale i Cubs avevano asfaltato i Marlins.

Mentre era lì, seduto al posto 113 dell’ottava fila del quarto corridoio, con il suo cappellino fortunato e le cuffie per ascoltare la telecronaca, tutto sembrava funzionare. Prior era in gran serata ed aveva concesso poco o niente ai battitori di Miami, tanto da costruire un solido vantaggio per Chicago. Il 26enne contabile che passava le sue giornate in una piccola ditta di consulenza della sterminata periferia della Windy City non sapeva ancora che la sua vita stava per cambiare per sempre.

Mark Prior Cubs Marlins game 2

La situazione precipitò di colpo nell’ottavo inning, quando prima Juan Pierre, poi Luis Castillo iniziarono a colpire con più regolarità i lanci di Prior. Il lancio fatale fu il numero 113, quello che il mancino della Repubblica Dominicana spedì verso la foul zone, a sinistra di casa base. Una presa al volo avrebbe fatto fare un grosso passo avanti alla difesa dei Cubs: l’esterno sinistro di Chicago Moises Alou partì sparato ma le cose non andarono secondo i piani. Quando staccò da terra e si protese verso la tribuna per afferrare la pallina, il suo guantone si scontrò con le braccia di uno spettatore che stava cercando di prendersi un souvenir di quella che, fino a quel momento, sembrava una serata memorabile.

Fosse successo ad inizio campionato la cosa avrebbe causato qualche fischio isolato ma in una gara decisiva la reazione di Alou lasciò tutto lo stadio interdetto: il giocatore iniziò a prendere a male parole Bartman. Il nervosismo si trasformò in parossismo quando le cose andarono di male in peggio. Quando il lancio di Prior sfuggì al catcher, i Marlins si ritrovarono con due basi piene ed un solo eliminato, abbastanza per far evaporare il vantaggio dei Cubs in una sola battuta. Il pubblico iniziò ad tempestare Bartman di bicchieri di carta e qualunque altra cosa: il contabile rimase lì, pietrificato dalla paura. I Marlins continuarono ad infierire, prima la singola di Ivan Rodriguez e poi ci fu un errore marchiano dell’ottimo Alex Gonzales che permise a Derrek Lee di pareggiare i conti.

Quel maledetto ottavo inning divenne un incubo: i Marlins misero altre cinque segnature una dopo l’altra, in uno stadio avvolto da un silenzio tombale. Dopo aver perso malissimo, i Cubs provarono a giocarsi il tutto per tutto in gara 7. Non ci fu niente da fare: Florida vinse ancora 9-6. L’ennesima sconfitta fu uno psicodramma collettivo a Chicago che vide scatenarsi una vera e propria caccia all’uomo. Da quando era stato scortato fuori dal Wrigley Field dagli steward dei Cubs, Steve Bartman era diventato l’uomo più ricercato di Chicago, con un gran numero di esagitati pronti a fargliela pagare.

La maledizione della capra

Ad un osservatore esterno sembra solo un episodio d’isteria collettiva ma la disperazione dei tifosi dei Cubs ha radici molto solide, ammantate dall’ennesima leggenda metropolitana. Dopo aver iniziato la loro storia con fior di titoli, diventando la prima franchise ad assicurarsi due titoli nazionali consecutivi, i Cubs erano entrati in un periodo nero che sembrava davvero senza fine. Nel 1945, finalmente, i Cubs erano approdati alle World Series e sembravano sul punto di tornare sul tetto del mondo. Purtroppo, però, successe uno strano incidente che, almeno a sentire i superstiziosi tifosi del baseball, avrebbe dato origine ad una delle maledizioni più implacabili di sempre, quella della Billy Goat. I dettagli di questa storia sono poco chiari ma la data è una delle poche cose certe: 6 ottobre 1945, al Wrigley Field arrivano i Detroit Tigers ma i Cubs sono riusciti a vincere due delle tre gare giocate a Motown. Tra le persone in fila per entrare nello storico impianto c’è un personaggio piuttosto singolare: William Sianis era il proprietario di origine greca di un pub vicino allo stadio, chiamato appunto Billy Goat.

Billy Goat 2016 Indians Wikimedia
Fonte: Wikimedia Commons

Visto che la pubblicità è l’anima del commercio, decise di portare la mascotte del pub, una capra chiamata Murphy, ad assistere alla partita dei Cubs. Non si sa esattamente cosa successe ma è chiaro che, nonostante avesse pagato il biglietto per Murphy, o non gli fu permesso di entrare allo stadio o fu invitato ad andarsene quando gli spettatori vicini protestarono per l’odore dell’animale. Furibondo, Sianis lanciò una potente maledizione contro la squadra di baseball, affermando solennemente che non avrebbero mai più vinto un campionato.

I Cubs persero tre delle quattro partite giocate in casa, consegnando ai Tigers il loro secondo titolo Mlb. Da quel momento in avanti ci vollero anni prima che si diffondesse la storia della maledizione ma, alla fine Chicago si convinse che andava presa sul serio. Gli episodi sono troppi per essere elencati ma molti ricordano ancora come, il 9 settembre 1969, un gatto nero entrò in campo allo Shea Stadium di New York durante una partita decisiva contro i Mets e camminò avanti ed indietro davanti al furibondo dugout di Chicago. Manco a dirlo, la stagione dei Cubs andò di male in peggio da quel momento in avanti, finendo con l’ennesima delusione.

Nel 1984, però, i Cubs erano favoriti nella semifinale contro i San Diego Padres. Dopo aver vinto le prime due partite, erano però arrivate due sconfitte: si sarebbe deciso tutto in gara 5. Chicago era in vantaggio nella parte bassa del settimo inning, prima di un incidente che avrebbe alimentato per anni la paranoia dei tifosi dei Cubs. Quando la pallina arrivò dalle parti del prima base Leon Durham sembrava un’eliminazione sicura, roba ripetuta migliaia di volte in allenamento; eppure, quella volta, la pallina gli sfuggì, perdendosi nel backfield. Quell’errore costò a Chicago l’ennesimo crollo: i Padres si sarebbero portati a casa la partita e la serie. Ecco perché l’incidente di Bartman fu accolto da una reazione così viscerale: dopo mezzo secolo di sofferenze, i tifosi dei Cubs avevano una persona sulla quale scaricare la propria rabbia. Nel farlo avrebbero mostrato il peggio della cultura sportiva della Windy City.

Tutta colpa dei media?

Già dal giorno dell’incidente sia i Cubs che la polizia sapevano che Bartman stava rischiato la vita, visto il clima da caccia alle streghe. Nonostante le telecamere avessero ripreso a lungo il volto dello spettatore, molti speravano che si sarebbe stati in grado di mantenere la sua identità un segreto. Ci volle meno di due giorni prima che Frank Main, un reporter del giornale più seguito di Chicago, il Sun-Times, rendesse pubblico non solo il suo nome ma anche il suo lavoro e in che sobborgo abitava. Da quel momento anche il resto dei media si scatenarono, pubblicando ogni genere di informazione su di lui.

La vita di Steve Bartman diventò un inferno: sei volanti della polizia erano stazionate davanti a casa sua per proteggere lui e la sua famiglia. Il governatore dell’Illinois arrivò a suggerire che partecipasse al witness protection program, il sistema previsto dalle autorità federali per far “scomparire” chi testimoni contro la mafia. Il governatore della Florida si offrì di aiutare Bartman a trasferirsi da quelle parti. Fu una pagina nera del giornalismo americano: una volta che il Sun-Times aveva rotto il silenzio, tutti furono ben lieti di poter alimentare l’isteria collettiva, incassando in termini di vendite ed ascolti.

Wrigley FIeld WIkimedia
Fonte: Wikimedia Commons

La questione è talmente spinosa da essere usata ancora oggi nelle scuole di giornalismo. Il rischio che qualche esagitato si vendicasse di Bartman era ben presente, per non parlare del fatto che non si trattava di una figura pubblica. Il mite contabile appassionato di baseball si scusò profusamente, dicendo di volersi mettere alle spalle l’incidente e tornare alla sua vita tranquilla. La spiegazione che fornì in un comunicato è semplice: aveva le cuffie, quindi non aveva visto Alou mentre stava provando a prendere la pallina al volo. Bartman rifiutò di concedere interviste, rimandando al mittente offerte di sponsorizzazione. Furono costretti a cambiare numero di telefono diverse volte per evitare che telefonate minatorie arrivassero ad ogni ora del giorno e della notte. Gli offrirono 25.000 dollari per una foto autografata e cifre a sei zeri per prendere parte ad uno spot che sarebbe stato trasmesso durante il Super Bowl ma Bartman non ne voleva sapere.

Seggiolino Bartman Wikimedia
Fonte: Wikimedia Commons

Anche i giocatori dei Cubs si schierarono dalla sua parte ma non Alou: dopo aver detto che era il momento di “perdonare quel tipo ed andare avanti”, in un documentario del 2011 ha ribadito che, senza l’intromissione di Bartman, “quella pallina l’avevo già nel guantone”. La cosa veramente assurda è che il mite contabile era un tifoso sfegatato dei Cubs e che, a partire da quel momento, non è più tornato al Wrigley Field. Il sedile maledetto, quello del famoso incidente, è visitato ogni anno da migliaia di visitatori ma Steve Bartman le partite se le guarda solo alla televisione.

Un inferno lungo 13 anni

Le cose non migliorarono nel corso degli anni: c’è chi dice che Bartman si era trasferito chissà dove ma la realtà è molto più banale. Vive ancora nell’hinterland di Chicago ma è riuscito nell’impresa non semplice di svanire dai radar dei media. Frank Murtha, amico d’infanzia, racconta come, nonostante abbia faccia di tutto per mantenere un profilo basso, ogni tanto arrivano ancora minacce di morte. A sentire il suo amico “quello che successe quella sera allo stadio fu davvero spaventoso. La folla era assetata di sangue, quasi completamente ubriaca e voleva sfogare la sua frustrazione su qualcuno, una tempesta perfetta di comportamenti antisociali”.

Col tempo, però, furono in molti a sperare di poter sfruttare la sua popolarità: nel corso degli anni, ha ricevuto offerte per autobiografie, persino una generosa offerta da parte di una catena di alberghi della Florida. Sei settimane di vacanza a cinque stelle, una prospettiva allettante nei gelidi inverni dell’Illinois. La risposta di Bartman? No, grazie, ma se volete potete darmi dei voucher per vacanze gratuite, che donerò ad un’associazione del mio quartiere”.

Altre volte, invece, le richieste erano quasi ridicole: “qualcuno si fece avanti con una sceneggiatura per un musical, tanto che non volevo quasi credere che si trattasse di una cosa seria”. A quanto pare, invece, non era affatto uno scherzo: c’era qualcuno che pensava che la storia del mite contabile sarebbe stata perfetta per Broadway. I tanti anni passati a nascondersi hanno avuto conseguenze dirette sulla sua vita privata. Non solo non è mai tornato allo stadio ma non si è mai sposato. Quando, nel 2016, Chicago approdò finalmente alle World Series, molti si fecero avanti pensando di fargli lanciare la prima palla della partita, così da ripagarlo dell’inferno che aveva vissuto ma Bartman ha preferito rifiutare ancora.

L’obiettivo di Steve è stato di tornare ad una vita normale. Il fatto che si parli ancora di questo incidente dopo così tanti anni è davvero singolare”. La cosa incredibile è che, nonostante tutto, Bartman tifa ancora per i Cubs ed avrà festeggiato come tutta la città quando, dopo ben 108 anni, arrivò la vittoria contro i Cleveland Indians e la fine della maledizione. Peccato che l’abbia dovuto fare chiuso in casa, per paura che qualche squinternato si ‘vendicasse’ per quella maledetta pallina.

Lieto fine? Non proprio

Verrebbe da pensare che con il ritorno alla vittoria dei Cubs questa pagina certo non edificante sia chiusa per sempre. Le cose, purtroppo, non stanno esattamente così: l’anno dopo la vittoria del titolo Mlb, la proprietà dei Cubs decise di fare un’ammenda pubblica, consegnando allo sfortunato tifoso un anello celebratorio della vittoria. Visto che questi anelli sono solitamente piuttosto voluminosi e pieni di diamanti, la famiglia Ricketts voleva porre la parola fine alle polemiche. Per la prima volta dal 2003, Steve Bartman ha rilasciato un comunicato alla televisione locale Wgn. Dopo le solite frasi di circostanza, c’è stata anche una battuta che dimostra come la ferita sia ancora aperta: “La mia speranza è che riusciamo ad imparare a vedere lo sport come un intrattenimento ed impedire che la gente se la prenda contro i singoli. È poi importante pretendere che i media e certi approfittatori opportunisti rispettino la privacy dei cittadini, si comportino in maniera etica e la smettano di sfruttare il prossimo per fare qualche soldo o portare avanti una loro agenda”.

Eppure la storia di Bartman è ancora attualissima. Lo scorso 15 aprile, quando si resero conto che i biglietti per la serie contro i Cubs erano in gran parte invenduti, i Miami Marlins hanno avuto un’idea brillante: preparare delle grafiche per invitare i tifosi ad affollare lo stadio per ‘ringraziare Steve Bartman’ per avergli regalato il titolo del 2003. Gli insulti non arrivarono solo dai tifosi dei Cubs ma dal resto del mondo del baseball. Celebrare l’atto che rovinò la vita ad un tifoso sarebbe “osceno”, roba della quale Miami dovrebbe vergognarsi. La dirigenza ha poi fatto sapere che non c’è mai stata una vera promozione e che le grafiche sono state ‘diffuse per sbaglio’. Invece di limitare i danni, la cosa è stata salutata con scherno e derisione: magari l’avete diffusa per sbaglio ma l’avevate fatta preparare.

La vicenda è poi tornata di stretta attualità pochi giorni fa, quando i Cubs hanno vissuto un’altra implosione nel finale di una partita, facendosi rimontare sei punti dagli Atlanta Braves. La sconfitta ha consegnato il titolo della National League Central a Milwaukee ma la cosa che ha scatenato la tifoseria di Chicago è che il meltdown è iniziato grazie ad un errore marchiano di uno dei migliori giocatori dei Cubs, l’esterno giapponese Seiya Suzuki. Lo scivolone del nipponico è costato due punti a Chicago nella parte bassa dell’ottavo inning, facendo andare in vantaggio i Braves. Suzuki si è scusato dicendo che “vedevo la pallina perfettamente fino all’ultimo secondo e pensavo davvero che mi fosse finita nel guantone. Mi ci è voluto una frazione di secondo per rendermi conto dell’errore”.

Cosa c’entra Bartman? Non molto, ma il parallelo è stato fatto lo stesso, forse perché, ancora una volta, tra Chicago e un posto nella post-season, ci saranno i Miami Marlins. Una cosa è certa: questa storia assurda rimarrà per sempre parte del mito del baseball, tramandata di padre in figlio. Niente potrà restituire a Steve quegli anni passati nascosto in casa, traumatizzato da certi "tifosi" e messo alla berlina dai media. L’unica speranza è che cose del genere non succedano mai più.

Fossi in voi, però, non ci scommetterei nemmeno un centesimo.

Commenti