Mario Monti sulla copertina di Time , grande settimanale statunitense (e internazionale), è motivo di soddisfazione. Il titolo poi che accompagna l’immagine suona come un complimento per il nostro Paese: «Può quest’uomo salvare l’Europa? ». Ce lo auguriamo davvero. Ma ci accontenteremmo che riuscisse a salvare l’Italia, cosa niente affatto scontata, visto che la crisi dalle nostre parti è particolarmente grave. Vabbè, sperare non costa niente.
L’accoglienza riservata al premier negli Usa è stata ottima, fa bene al morale, ma non va sopravvalutata. Anche Silvio Berlusconi, d’altronde, quando alcuni anni fa parlò al Congresso venne applaudito a lungo, eppure la cosa non gli portò fortuna. Sappiamo come la sua ultima esperienza a Palazzo Chigi è andata a finire: bruscamente interrotta causa una serie di problemi, primo fra i quali le difficoltà italiane con lo spread, e sorvoliamo sul terremoto borsistico. Ma non è questo il punto.
Ciò che in questi giorni ci ha sorpresi è la sfacciataggine con cui l’America si arroga il diritto di dare le pagelle ad altre nazioni, inclusa la nostra. Come si permette di stare in cattedra, quando sono risapute e accertate le sue colpe nel disastro finanziario globale che ha ridotto a malpartito quasi tutte le economie? O ci siamo dimenticati di quanto accadde a New York nel 2008? Banche che saltavano per aria, titoli tossici che imperversavano suscitando scandalo e preoccupazione, società finanziarie che fallivano, migliaia di funzionari licenziati in tronco che abbandonavano l’ufficio con i loro scatoloni divenuti simbolo di fallimento e disoccupazione.
Il giudizio degli esperti fu unanime: la tragica bolla, provocata da eccessi speculativi e da un capitalismo corrotto e spregiudicato, si era gonfiata ed era esplosa proprio lì, negli Stati Uniti. Altro che finanza creativa. Eravamo di fronte a un fenomeno di cattiva gestione del denaro, a un vero imbroglio su vasta scala, a una specie di catena di Sant’Antonio che penalizzava gli ultimi acquirenti di prodotti avvelenati, pezzi di carta cui era attribuito un valore in realtà inesistente. Anche i nostri istituti di credito avevano abboccato alle lusinghe dei truffatori statunitensi, che promettevano lauti guadagni (interessi elevati) sul nulla, e comprato schifezze poi girate ai loro clienti come fossero pepite. Un disastro illimitato che ha travolto tutto il Vecchio continente, messo in ginocchio l’Inghilterra (con la sua boria di capitale europea della finanza) e via via tutta la Comunità europea, Italia inclusa.
È noto che la responsabilità del crac è degli States, dell’economia basata sul debito, sulle carte di credito usate come cambiali senza scadenza, sui mutui ipotecari concessi a chi non aveva mezzi per pagare le rate. Il peggio del peggio recava il marchio «made in Usa». Con che coraggio, a distanza di qualche anno, gli Stati Uniti si impancano a giudici e distribuiscono attestati di affidabilità a questo o a quel Paese?
Ieri, tra l’altro, il nostro presidente del Consiglio è stato posto sotto esame da Wall Street, come se fosse lui a doversi giustificare dei guai che rendono difficoltosa la ripresa nella Ue. Siamo all’assurdo. Al controsenso.
A rigor di logica sarebbe Monti autorizzato a processare gli americani per i pasticci che hanno combinato, anche a nostro danno, e non viceversa. Non accettiamo lezioni dai magliari. Rifiutiamo di salire sul banco degli imputati se a emettere le sentenze sono coloro che andrebbero condannati.
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