Amanda e Lele: «Ridateci le nostre vite»

VERDETTO I due imputati si difendono prima del giudizio: «Non abbiamo ucciso Mez»

Amanda e Lele: «Ridateci le nostre vite»

Ventiquattr’ore al giorno del giudizio. Il momento della verità, almeno quella che dovranno stabilire sei giudici popolari e due togati. Una verità, in qualunque caso, destinata a rimanere «mezza». Tutti si proclamano innocenti. Dunque, chi ha ucciso Mez? Solo quel Rudy già condannato?
Accusa e difese, dopo decine di udienze, ora si scontrano persino sul terreno delle perifrasi, gli avvocati citano canzoni, i pm perugini replicano con le favole. Così il pubblico ministero Manuela Comodi replica all’avvocato Giulia Bongiorno che nella sua arringa, pro Sollecito, aveva citato una strofa di Sergio Endrigo. Lei risponde con la fiaba dei Tre porcellini: «Ognuno dei tre porcellini - narra il magistrato - costruisce una casa: una di paglia, abbattuta dal lupo con un soffio, un’altra di legno che il lupo fa crollare con una spalla, e la terza di mattoni, che resiste a tutti gli attacchi. Le prime due sono le difese di Sollecito e di Amanda Knox. La terza è la casa dell’accusa, fatta di mattoni messi uno sull’ altro che danno un assetto stabile e immodificabile».
Altro che «una casa senza tetto e senza cucina». Alla vigilia del giorno destinato a «trasformarlo» in un assassino, freddo e lucido o in un giovane uomo innocente, Lele parla con voce da bambino. Pallido, spaurito lo sguardo angosciato. È una supplica, gridata, la sua: «Vi chiedo di restituirmi la mia vita. Non ho ucciso Meredith, non ero in quella casa e so che lo farete perché ho ancora fiducia nella giustizia. Mi hanno accusato di essere dipendente da Amanda, non è vero la conoscevo da poco, il nostro rapporto era ancora tutto da verificare: se mi avesse chiesto di fare qualcosa che non condividevo avrei detto certamente di no. Figuriamoci se mi avesse chiesto qualcosa di così terribile come uccidere una ragazza. Non sono un violento, non lo sono mai stato». Poi si ferma, chiede scusa per il tono. Ricomincia: «Sono coinvolto in una vicenda assurda di cui non so nulla... Ribadisco non sono, non sono mai stato e mai sarò un violento. Non ho ucciso Meredith e non ero in quella casa quella sera. Spero solo che il vero assassino confessi».
Qualche ora dopo, nel pomeriggio, tocca alla bella e «bugiarda» Amanda prendere la parola. Parla in italiano, la voce un po’ strozzata: «Mi sento delusa, triste e frustrata - spiega ai giudici -. Ho paura di avere una maschera da assassina forzata sulla mia pelle. Tanti mi dicono che se fossero al mio posto si sarebbero strappati i capelli, avrebbero preso il cielo a pezzi... Io non faccio questo, in questa situazione provo a cercare quello che c’è di positivo: adesso si deve prendere una decisione, e io di fronte a voi mi sento vulnerabile ma fiduciosa».
Cappottino verde pistacchio, sopra un maglione bianco la biondina di Seattle, stavolta non riesce a sorridere. Poi un dubbio, un quesito, quello che giura di essersi ripetuta nelle lunghe notti spese in cella e che ora rivolge alla Corte. «Mi è venuta in mente - dice la Knox - una domanda che ho scritto su un foglio bianco: come riesci a stare così tranquilla? Ma io non sono calma. Ho già scritto che ho paura di perdere me stessa e di essere definita come non sono».
Il padre Kurt, la mamma Edda e la sorella Deanna, loro, le credono.


Tocca a Luciano Ghirga, l’ultimo affondo: «Amanda è rimasta vittima di uno "scontro tra donne", dovete restituirle la vita» Le stesse parole usate da Raffaele, cornice di un destino legato che sembra non potersi sciogliere. Per loro l’accusa ha chiesto l’ergastolo. Oggi i giudici si riuniranno in camera di consiglio. Poi la sentenza. Le ore più lunghe delle loro giovani vite.

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