Ambasz, un’utopia a più piani per costruire montagne verdi

Il lavoro dell’artista internazionale è visto attraverso disegni, plastici, fotografie e installazioni

Luciana Baldrighi

Statunitense d’adozione e argentino di nascita, Emilio Ambasz, architetto e designer di fama internazionale è stato definito il «profeta di una nuova Arcadia» e «un inguaribile utopista» che come Soleri e Boulée continua a imporsi in maniera stravagante all’interno del percorso architettonico contemporaneo più innovativo. Laureato a Princeton e nato nel 1943 in Argentina, tra i suoi primi lavori che troviamo esposti fino al 24 luglio alla Triennale di via Alemagna ci sono l’«Art Museum» del Michigan e la Prefettura di Fukuoka in Giappone, ma ciò che colpisce di più lo spettatore è che Ambasz è «maestro dell’architettura del verde», non a caso i suoi palazzi assomigliano a dei giardini pensili proprio come nell’antica Babilonia, sebbene con dimensioni gigantesche.
Ad accompagnare l’esposizione una monografia edita da Skira «Emilio Ambasz. Un’Arcadia tecnologica» (300 pagine a colori con testi in italiano e in inglese, 60 euro) a cura di Fulvio Irace con un saggio di Paolo Portoghesi che raccoglie il mondo sconosciuto di questo «messia dell’architettura ambientale», così definito da James Wines.
Ciò che questo amato e odiato architetto ha costruito in questi ultimi decenni è incentrato su una discussa politica di intervento sul territorio, basata su un approccio nostalgico al di fuori di ogni tecnologismo. Osservando opere come i «Sant’Antonio Botanical Gardens» (Texas), la «Nuova Concordia Resort Housing» (Castellaneta, Italia), una sorta di Paxton del XX secolo è diventato il manifesto di una nuova architettura fondata sul principio del «green over grey» («verde sopra il grigio»).
«Il mio scopo non è quello di costruire città ripetendo vecchi schemi - dice Ambasz - piuttosto nuove città verdi: una città che non sia il regno della casa “nel giardino” ma l’offerta della casa e del giardino. Ho speso gli ultimi venticinque anni della mia vita professionale a sperimentare edifici capaci di restituire alla comunità il più possibile di verde secondo una strategia progettuale che mi piace definire del verde sopra il grigio».
Ricostruendo le tappe salienti l’attività dell’architetto argentino fino agli anni Settanta possiamo vedere come la sua architettura sia stata un ponte tra America e Europa. A questo proposito va ricordata la mostra «Italy: the new domestic landscape» al Museo d’Arte Moderna di New York nel 1972. Dalla mostra così come dal libro possiamo capire l’universo creativo e l’impegno teorico di Emilio Ambasz a partire dalle «working fables» degli esordi fino ai progetti urbani per «Plaza Mayor» (Salamanca) e l’«Houston Center Plaza» di Houston per arrivare ai grandi piani degli anni Ottanta come il «New Town Center» di Chiba in Giappone, i centri residenziali e commerciali dell’Aia e Amersfoort, fino agli interventi più recenti nel nostro Paese come la Banca dell’Occhio a Mestre, una sofisticata opera tecnologica che si coniuga con il mito dell’«eterno giardino». Oggi sta lavorando all’Ospedale di Mestre per Venezia.


«Il giardino universale» è un termine usato dal noto architetto come metafora di una poetica che si integra alla ricerca della «land art», con i cui principali protagonisti come Richard Serra, Michael Heinzer e Robert Smithson condivide un patrimonio di soluzioni progettuali e di linguaggio come il concetto di stratificazione, di infinito passando per elementi della natura come le rocce.

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