"Amo un italiano, papà mi uccide" Marocchina di 15 anni sotto scorta

Scoperta la relazione, la ragazzina viene picchiata e minacciata Si rifugia dai carabinieri che la portano in un luogo protetto. Il legame svelato da un biglietto lasciato nei pantaloni e scoperto dalla madre

La richiesta di aiuto è straziante: «Aiutatemi, non voglio finire come Hina e Sanaa». Lo ha detto in lacrime ai carabinieri di Pavia, appena qualche ora fa, una quindicenne marocchina scappata dalla sua abitazione di Voghera. E i militari si sono mossi immediatamente: adesso la studentessa si trova in una località protetta della Lombardia, via dai genitori da lei stessa accusati di averla minacciata di fare la stessa fine di Sanaa. Del resto la sua storia, da qualche mese a questa parte, è simile a quella delle due ragazze alle quali hanno tolto la vita, «colpevoli» solo di amare un uomo italiano, non musulmano. Un copione già visto.
La giovanissima conosce un ragazzo italiano, si piacciono, si fidanzano. Lui ha la sua stessa età: una storia pulita. Eppure ai genitori non va affatto bene. Il padre, appena lo scopre, le urla più, e più volte, che lei deve troncare questa storia. Alla fine un po’ per obbedienza filiale, molto per paura l’adolescente ubbidisce. Ma solo per poco tempo. Poi non ce la fa. E riprende a frequentare il ragazzino italiano. E purtroppo alla fine viene scoperta. La mamma trova infatti un biglietto nei suoi pantaloni, buttati nel cesto della biancheria sporca e destinati alla lavatrice. C’è scritto: «Non riesco a dimenticare quanto passato con te». Da lì l'inferno in famiglia.
Iniziano le vessazioni. Il padre la picchia sistematicamente e la minaccia di morte: «Ti faccio fare la fine delle altre...» alludendo ai casi più terribili di povera ragazze musulmane massacrate perché cercavano di emanciparsi da un mondo integralista e ottuso. Botte e minacce a cui avrebbe assistito senza battere ciglio, anzi condividendo il «metodo educativo», anche la madre. La ragazza cerca di appigliarsi a quanto ha intorno, fa contattare da amici anche i Servizi sociali, come spiegherà più tardi anche ai carabinieri. Ma tutto rimane com’è. Nessuno la allontana da quella famiglia che, ormai, la picchia e la insulta quasi ogni giorno. La frase che si sente dire con rabbia è sempre quella: «Raki daimen muslima u-maghribiyya (sei sempre musulmana e marocchina). Queste sono le tue origini, non lo devi dimenticare, ed è per questo che non puoi frequentare i ragazzi italiani che non sono musulmani. Tuo padre si sente disonorato». E giù botte.
Il risalto che i mass media hanno dato ai casi di Hina e Sanaa la fa reagire. Grazie a quanto ha visto sa come può finire. Si ribella e si salva. E i genitori perdono una figlia. Quando decide di fuggire di casa è disorientata, non sa cosa fare né dove andare. Ma si dimostra più forte di quanto non abbia mai sospettato. Pensa a una sua amica italiana. La contatta e va da lei. Sta lì una notte. Il giorno dopo prende il treno con lei, destinazione Pavia. E una volta arrivata nel capoluogo scatta la decisione: quella di farsi aiutare da chi, sicuramente, non sottovaluterà il suo grido disperazione.
Così entra nella caserma di San Pietro in Ciel d’Oro e racconta tutto. Sa che ribellarsi può valerle una vita senza rimpianti, in cui potrà decidere liberamente il suo destino. E al piantone che la ferma all’ingresso dice, senza esitazione: «Voglio fare una denuncia».

Denuncia che inizia con le lacrime ma finisce con un mezzo sorriso. Perché subito le viene detto che in quella casa non tornerà. Finalmente il suo terrore viene ascoltato. Adesso, della vicenda, si occuperà anche il Tribunale per i minorenni.

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