Cultura e Spettacoli

Analisi sulla Ricchezza delle Nazioni

Nell’analizzare la situazione italiana in rapporto alle trasformazioni del capitalismo e all’affermarsi dei processi di globalizzazione, occorre sottolineare che non si è in presenza di concetti e fenomeni unici e indifferenziati, ma che esistono diversi modelli di capitalismo, così come diversi tipi di globalizzazione.
Partirei dall’analizzare i possibili modelli di globalizzazione che, credo, possano essere ricondotti essenzialmente a quattro tipologie.
Un primo modello, tipico degli Stati Uniti, è basato sulla potenza della tecnica, sullo sviluppo delle grandi tecnologie, sulla ricerca e, in particolare, sulle comunicazioni e l’informazione. Questo modello richiede livelli notevoli di investimento e un sistema universitario in grado di immettere sul mercato un numero elevato di tecnici, ingegneri, fisici, ecc.
Un secondo modello si fonda sul neofordismo standardizzato, quindi sulla disponibilità di una grande quantità di mano d’opera a basso costo e sulla standardizzazione delle produzioni. È questo il modello che caratterizza la potenza emergente cinese e la sua alta capacità di competizione.
Entrambi questi modelli sono lontani dalla situazione italiana: il nostro Paese si identifica piuttosto con un terzo modello di globalizzazione, che potrebbe essere definito come capitalismo delle produzioni complesse, in quanto assomma in sé una parte di tecnica, una parte di qualità, una parte di design e una parte di manifattura. In effetti, è l’insieme di questi elementi che costituisce la peculiarità del modello italiano.
Un quarto modello si basa su un’economia della sopravvivenza o economia informale. Spesso ci si dimentica che metà del mondo è ancora dominata dall’economia informale ed è ancora lontana dagli altri tre modelli descritti.
Esistono quindi più modelli di globalizzazione, di fronte ai quali il capitalismo italiano, con pesanti ristrutturazioni negli ultimi quindici anni, è riuscito a riorganizzarsi e a muoversi al loro interno attraverso il suo modello di produzione complessa.
I MODELLI DI CAPITALISMO
Allo stesso modo, limitandoci alla dimensione europea, si possono descrivere almeno cinque modelli di capitalismo.
Un primo modello è rappresentato dal capitalismo anglosassone, fondamentalmente basato sulla centralità della Borsa di Londra e dell’impresa come molecola del capitale finanziario. La situazione italiana è significativamente lontana da questa tipologia, così come lo è rispetto a un secondo tipo di capitalismo, quello renano basato sulla cogestione al vertice tra grande impresa, grande banca, grande sindacato.
Anche in Italia si parla di cogestione, ma si tratta di cosa ben diversa, data l’assenza di grandi imprese, grandi banche e grande sindacato al vertice. In passato si è avuto qualche cosa di simile con l’Iri, in cui vi erano grandi banche statali partecipate, grandi imprese e un ruolo importante del sindacato, ma, appunto, fa parte del passato. Ciò nonostante, si è spesso tentato di governare il Paese come se fossimo in una situazione da capitalismo renano.
Non è assimilabile a noi neanche il terzo tipo di capitalismo, quello francese, in cui l’intervento dello Stato è importantissimo; nonostante tutte le grida dell’Unione europea: in Italia, lo Stato non ha la capacità di intervenire con questa ampiezza.
È difficile per noi riconoscerci anche nel quarto modello, il capitalismo anseatico, che potremmo identificare nel «modello Nokia», caratterizzato da grandi investimenti in ricerca e sviluppo. Questi Paesi, vedasi tra gli altri la Danimarca, vengono spesso presi ad esempio di modernizzazione, in termini di relazioni industriali, valorizzazione del lavoro femminile, utilizzo del part-time.
IL CAPITALISMO ITALIANO
Diverso quindi da tutti quelli finora descritti, il modello italiano può essere definito come un capitalismo di territorio, basato sulla capacità produttiva dei sistemi territoriali, denominati distretti produttivi.
Dal punto di vista manifatturiero, questo modello è il risultato di pesanti ristrutturazioni, come già osservato, che hanno interessato anche grandi imprese. La crisi della Fiat è emblematica di cosa ha significato questa transizione: la Fiat ristrutturata e dimagrita dei nostri giorni non è più la Fiat degli anni Settanta. Marchionne ha intuito che lo slogan fordista «ciò che fa bene alla Fiat fa bene all’Italia» andava rovesciato in «se va bene il sistema Paese, il sistema produttivo, allora andrà bene anche la Fiat». Tuttavia, le vere grandi imprese presenti sul territorio del Paese appartengono non tanto al capitalismo manifatturiero, ma soprattutto al capitalismo delle reti, come ad esempio le due grandi banche: Unicredit e Intesa-SanPaolo.
Accanto alle poche grandi imprese, abbiamo circa seimila medie imprese, molto spesso cresciute dentro i distretti attuando processi di verticalizzazione e di internazionalizzazione, che rappresentano la vera ossatura del capitalismo italiano, una struttura intermedia di importanza essenziale. A queste si aggiunge quello che chiamo capitalismo a grappolo: trecentomila imprese cresciute, diciamo così, molto all’italiana. Infine, ci sono sei milioni di capitalisti molecolari, aziende che hanno da uno a nove dipendenti.
Sommando tutte queste tipologie, si può concludere che in Italia vi sono almeno 28 milioni di persone che vivono di impresa; malgrado ciò, si continua a ragionare come se esistessero solo il pubblico impiego e la classe operaia, senza rendersi conto di quanto sia cambiata la composizione sociale.
IL PROBLEMA DELLA MODERNIZZAZIONE DEL SISTEMA
Qualsiasi operazione di modernizzazione, di crescita, di ristrutturazione, deve partire da ciò che è il capitalismo italiano e dal riconoscere i processi che stanno alla base della sua attuale configurazione, processi tutt’altro che semplici e indolori.
Si è trattato, infatti, di un grande processo di ristrutturazione competitiva, in cui si è dovuta cambiare completamente la visione, passando da un approccio nazionale a un’economia globale. Questo salto è stato compiuto da imprenditori che, magari non parlando nemmeno inglese, hanno saputo ugualmente operare con successo anche in questo nuovo contesto globalizzato. E hanno anche cambiato le loro aziende, che ora hanno uomini che si occupano di marketing, d’innovazione di processo, di prodotto e di design, che l’inglese lo parlano benissimo.
Questo processo è avvenuto mentre eravamo avvolti in una strana retorica del declino, fatta da chi sosteneva gli altri modelli di capitalismo e decretava l’impossibilità per l’Italia di farcela, perché non avevamo una Borsa sufficientemente forte, perché eravamo senza grandi imprese, perché non avevamo più capacità produttiva e non saremmo riusciti a reggere la sfida competitiva.
Non dobbiamo però dimenticare che i problemi fondamentali sono rimasti, primo tra tutti quello del rapporto, in gran parte ancora da costruire, tra questo capitalismo del territorio e il capitalismo delle reti. Il punto centrale è dato dal rapporto con le banche, che sta peraltro lentamente cambiando, perché non più focalizzato sulle banche locali, fondamentali tuttavia nella crescita di questo tipo di capitalismo. La necessità di operare in un ambito globalizzato impone l’utilizzo di reti finanziarie lunghe, che sappiano accompagnare le imprese sui mercati mondiali.
Un altro snodo rilevante è quello delle reti di trasporto, ferrovie, strade, aeroporti, che devono essere assolutamente modernizzate, perché non avrebbe senso produrre senza poter mandare quanto prodotto ovunque nel mondo, in modo efficiente e competitivo. Né meno importante è il rapporto con un altro sistema di reti, quello dell’energia e delle utilities, determinante anch’esso per il livello di competitività delle nostre imprese.
Infine, non si può non menzionare il problema rappresentato dal sistema del sapere, dell’università, che spesso si configura come una casta estranea rispetto alle reali esigenze di chi opera sul campo, con una dannosa divaricazione tra i piani di studio offerti e il fabbisogno delle imprese.
La modernizzazione del Paese comporta anche la modernizzazione delle strutture di rappresentanza, che devono anch’esse diventare reti lunghe per aiutare le aziende a penetrare i mercati, non limitandosi a un tipo di supporto che può essere ben svolto da uno studio commercialista. Così come comporta un diverso modo di rapportarsi con la politica, non più confinato all’ambito locale, ma anch’esso proiettato su dimensioni più ampie, Regioni, Stato e Europa.
VERSO UNA NUOVA BORGHESIA?
Il nucleo del conflitto moderno non è più tra capitale e lavoro, con lo Stato nella funzione di redistributore. Il conflitto non è neppure tra piccolo e grande: un’azienda può anche avere nove addetti, ma se ha reti commerciali che la portano in Giappone e altrove nel mondo, è una grande impresa, un’impresa a rete lunga. Ci sono invece imprese con mille addetti, ma in settori del tutto obsoleti, destinate a finire presto fuori dal mercato.
Il vero conflitto moderno è tra flussi e luoghi, tra chi sta fermo nei luoghi e chi, partendo dai luoghi, si immette nei flussi, per poi tornare ai luoghi con accresciuto know how, attraverso il quale contaminare i luoghi e farli crescere.
Questo è il compito della nuova borghesia e la domanda è se essa potrà nascere da questo capitalismo di territorio. Seimila padroni di medie imprese sono una nuova borghesia di provincia che sta venendo avanti col maglioncino e non più col gessato. Credo che questa nuova borghesia provinciale del capitalismo di territorio incominci a pesare dentro il sistema Paese, quella che Leopardi chiamava la «società stretta» rispetto alla «società larga».


La speranza è che si muovano soggetti di questo genere, si alleino con la nuova borghesia innovativa del capitalismo delle reti e comincino ad assumersi la responsabilità di rappresentare un Paese che è molto meglio di quanto ci raccontano tutti i giorni.
* Direttore del Consorzio Aaster (Associazione Agenti per lo Sviluppo del Territorio)

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