Cultura e Spettacoli

Andrea Bolgi, il genio che faceva ridere il marmo

Lo scultore, detto "Carrarino", era un virtuoso dei ritratti. Tanto da rivaleggiare con il Bernini. Alle sue "persone" regalava espressioni di assoluta realtà

Andrea Bolgi, il genio che faceva ridere il marmo

Ho sempre pensato che Andrea Bolgi (1606-1656), dimenticatissimo scultore di Carrara che si esprime completamente a Napoli nella chiesa di San Lorenzo, odiasse il suo maestro e amico Gian Lorenzo Bernini. Dimenticatissimo, ma non trascurabile, è certo, che dovette stare nella bottega e nell'ombra del maestro con un ruolo non marginale. Per esempio eseguendo e talora perfezionando i vertiginosi panneggi dei capolavori di Bernini: la Santa Teresa di Santa Maria della Vittoria e la beata Ludovica Albertoni a San Francesco a Ripa, a Roma.

I grandi scultori, da Tino di Camaino a Giacomo Manzù, si riconoscono dal divertimento e dal compiacimento di trasformare il marmo di Carrara (già per sua sostanza serico e luminoso) in stoffe, velluti, damaschi e taffetà. E più si moltiplica fino al parossismo questo ritmo, più lo scultore appare virtuoso e memorabile. La mia idea del Bolgi risale alle lontane e precise cose che di lui ci racconta Antonia Nava Cellini in una trattazione puntuale e convincente. Tanto il Bolgi - certo con più pratica del Bernini - era radicato a Carrara ed era spuntato e cresciuto nelle sue cave, da essere chiamato «il Carrarino». Inizia ragazzo a Firenze, a Carrara, a Massa e a Livorno, osservando con ammirazione il severo Pietro Tacca, che aiuta nella fusione dei quattro mori del monumento al duca Ferdinando I. Già a vent'anni, nel 1626, è a Roma, subito nella bottega del Bernini che, per ironia della sorte, lo fa collaborare al baldacchino di San Pietro per realizzare bronzi, angeli e putti, in un laborioso impegno tra il 1628 e il 1633.

Ma nel 1629 aveva avuto la prima importante commissione in San Pietro in Vaticano, una delle quattro colossali sculture nelle nicchie dei Piloni: la Santa Elena . Essa fu tradotta in marmo tra il 1634 e il 1639. Proprio negli anni in cui Bolgi si applicava al genere nel quale raggiunse risultati di eccezionale interesse: i ritratti. Datato e firmato 1637 è il sofisticato busto di Laura Frangipani Mattei in San Francesco Ripa. All'inizio del quinto decennio del Seicento Bolgi va per la prima volta a Napoli, per collaborare all'altare della cappella Filomarino di Francesco Borromini nella chiesa dei Santi Apostoli. Si restituisce a Roma, e quindi al Bernini, per dare il suo contributo alla cappella Raymondi in San Pietro in Montorio dove lascia i ritratti di Francesco e Girolamo de Raymondi.

Finalmente nel 1649 si trasferisce definitivamente a Napoli, dove lavora intensivamente nella specialità dei ritratti. Qui assistiamo alla sua liberazione, al più straordinario episodio barocco non solo di Napoli: la cappella Cacace, nella basilica di San Lorenzo Maggiore, dove prevale l'allestimento teatrale nella destinazione funeraria, come se la vita non si fosse interrotta ma sospesa in un momento di emozione palpitante, sconosciuto persino al Bernini. Qui il Bolgi, chiamato da Cosimo Fanzago nelle linee rigide dell'architettura, dispone quattro persone vive, due in grandi dimensioni quasi a figura intera entro ampi panneggi animati, ossia Vittoria de Caro e Giuseppe de Caro, e due parlanti busti di Francesco Antonio de Caro e di Giovanni Camillo Cacace, committente dell'impresa. Difficile dimenticare il sorriso di quest'ultimo, tra l'ingenuo, l'ironico e il beffardo, sposato a una donna secca e severa mentre lui si era occupato di un istituto per l'educazione delle giovani, tra malizia e spirito paterno. Il Cacace ci guarda bonario sotto i baffi mostrando una vaga somiglianza con Giovannino Guareschi. È lo spirito comico del gruppo, fra gli altri accigliati e compresi di sé. Nelle linee rigorose dell'architettura, ingentilita dagli intarsi floreali, questi personaggi vivono. Sopra il busto del Cacace aleggia la moglie, con gli abiti mossi da un vento del cielo, inginocchiata su un cuscino ricamato, posato su una base riccioluta su cui, in lettere cubitali, leggiamo il nome del Bolgi e la data 1653. Mai nessuno scultore si era esibito con tanta evidenza. Ho sempre pensato che questa fosse la prova di una rivendicazione, di un riscatto, come dire: ecco, questo sono io. Guardate cosa so fare. Bernini è lontano: non serve a me e io non servo lui.

Una prova di forza e un (vano) investimento di immagine. Una vera festa della scultura, con la prova del più alto virtuosismo mai espresso, nella dimensione del reale e in quella onirica, con caratterizzazioni che sostengono il confronto con teste felliniane che neppure la pittura ha osato, se non forse quella di Diego Velázquez, come si mostra nel ritratto di monsignore Cristoforo Segni maggiordomo del Papa e compagno di merende del Cacace. Entrambi con l'aria sorniona. Trovarteli davanti nella chiesa di San Lorenzo, sembra che dopo avere pregato ed esercitato le funzioni in chiesa, ti potranno raggiungere più tardi a cena. Al confronto, le belle Dafne del Bernini, Teresa e Ludovica, in fuga e in abbandono, sembrano consumate attrici che recitano per l'arte e per il mito, e non per la realtà come le persone del Bolgi. Possono dialogare con loro, tra le creature del Bernini, i busti di Scipione Borghese e Costanza Bonarelli.

Poi, non per loro, la vita finisce e il Bolgi muore di peste, nel 1656.

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