La «anormalità» d’una storia bellissima

«Secondo alcuni autorevoli testi di tecnica aeronautica, il calabrone non può volare, a causa della forma e del peso del corpo in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa, e perciò continua a volare». È difficile non pensare all’aforisma di Igor Sikorsky (ideatore e realizzatore del primo elicottero producibile in serie) dopo aver letto tutto d’un fiato l’ultimo romanzo di Cesare De Marchi. Avevamo appena finito di metabolizzare la mesta costatazione di Marcello Veneziani («In quest’epoca non possono nascere capolavori; e se pure nascessero, nessuno li riconoscerebbe per tali») che già ci tocca dare un doppio dispiacere allo Zeitgeist.
Contrordine, compagni! La vocazione (Feltrinelli, pagg. 264, euro 16,50) è un «capolavoro»? Certo, ma il termine ha ormai rinnegato la sua origine urbana e concreta, corporativa e artigianale, e dunque non ci piace. Sa di evento che spezza la «normalità». Invece per scrivere un grande romanzo bastano un paio di virtù, di quelle buone. Basta avere statura intellettuale e morale, rispetto per il prossimo e, perché no, qualcosa da dire. Le stesse qualità che si richiedono a un recensore. La vocazione è un romanzo che fa saltare sulla sedia il lettore attento fin dal titolo. In tedesco, «vocazione» si dice Beruf e indica sia la vocazione religiosa, sia la professione. Impossibile che Cesare De Marchi, da anni attivo in Germania, non abbia riflettuto sulla differenza fra la vocazione mediterranea e il Beruf tedesco. Tutto il romanzo nasce da questa divaricazione.
Luigi, il trentenne protagonista, ha la vocazione dello storico ma non è uno storico di professione. Non è nemmeno laureato, perché la madre - un mostro anaffettivo tutto profumi e niente balocchi - non ha trasmesso alcun modello di umanità, e poi, dopo la morte del marito, ha «finito» il figlio, non sostenendolo economicamente negli studi. Per campare Luigi lavora in un fast-food, terrificante «antro di frittura». È uno sguattero: nessuna doccia, nessun deodorante possono cancellare il puzzo d’olio dal suo corpo. Eppure tiene duro: ogni giorno, mentre la fidanzata Antonella ancora dorme, si sveglia all’alba, apre una monografia su Attila o su Carlo XII e accumula appunti, nella speranza che prima o poi qualche professorone si accorga di lui e lo tiri fuori dal suo inferno. Attende, con tutto il cuore che gli è rimasto, un’investitura grazie alla quale ricomporre la sua esistenza spaccata in due; investitura che pare a portata di mano quando uno storico venerando, Ruggiero Romano, apprezza apertamente un suo saggio.
Il brusco sbarramento che seguirà alla morte improvvisa di Romano inaugura la seconda parte del romanzo, dove De Marchi segue il suo eroe fin dentro la follia, come Schnitzler.

Ma mentre a Schnitzler capita spesso di abbandonare i suoi personaggi al loro destino, persino con uno scioccante passaggio dalla prima alla terza persona, De Marchi non osa ridurre il suo protagonista a una «cosa». Nella pagina finale, ormai privo di coscienza, Luigi al contrario riuscirà a chiudere il cerchio.

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