Antifascisti precoci? Lo furono un po’ tutti

Caro Granzotto, le scrivo per rivendicare, nei confronti della signora Hack e di Pietro Citati, il titolo di più giovane antifascista d’Italia, da me guadagnato a sei anni e pochi mesi, nel 1943. La mia famiglia era sfollata presso dei contadini nel Ferrarese, ove frequentavo la prima elementare. La maestra era moglie di un gerarchetto locale che si compiaceva di atteggiamenti duceschi. Mi ammalai e rimasi a casa da scuola alcuni giorni. Veniva a farmi compagnia la figlia dei miei ospiti, poco più grande di me, e in una di queste visite, sfogliando il sillabario, che riportava varie immagini del Duce, scrivemmo a matita, su quell’ampia fronte, la parola «Porco» (dopo l'entrata in guerra la popolarità di Mussolini era ridotta al lumicino). Guarito, tornai a scuola dimenticando di cancellare la scritta. I miei compagni corsero subito dalla maestra, che mi chiese: «Chi ti ha insegnato queste cose?» Bambinetto, risposi: «Il papà e la mamma»! Mio padre fu quindi chiamato da un funzionario locale del partito, che, essendo persona di buon senso, capì che era una ragazzata e mise tutto a tacere. Finita la guerra, la maestra mi mandò a dire che avevo ragione. Seppi anche che il «fascista» mio salvatore era stato ucciso da partigiani venuti da fuori, in cerca forse di facili meriti resistenziali.


Ma lo sa, caro Garberoglio, che potremmo dedicare un’intera pagina alle testimonianze dei lettori che contendono alla signora Hack e a Pietro Citati il titolo di più giovane antifascista d’Italia rifacendosi, ovviamente, al risibile metro di misura adottato da costoro? E ancora: lo sa che in mano d’altri l'episodio del quale è stato protagonista avrebbe costituito la patente di antifascista eroico? Questa, che mi raccontò Mario Cervi, l’ho già scritta, ma fa lo stesso: verso la fine degli anni Trenta, per totale incompetenza, poca voglia di lavorare e altro che non so dirle, il ministero degli Esteri decise di far rientrare in sede un diplomatico di stanza ad Atene. Secondo procedura, costui ricevette un telegramma con l’intimazione di «cessare le mansioni a voi precedentemente affidate». Firmato Benito Mussolini (che, ai tempi, ricopriva anche l'incarico di ministro degli Esteri). Ripresosi dallo sgomento, il diplomatico, indirizzandolo a «Sua Eccellenza Benito Mussolini, Duce del Fascismo e ministro per gli Affari Esteri» trasmise a Roma questa laconica risposta: «Cesso». Grazie al quel telegramma, a cose fatte, a fascismo morto e sepolto, l’interessato ebbe modo (e faccia tosta) di rivendicare poderosi meriti antifascisti asserendo d’aver dato - e nero su bianco, mica no - del cesso al Duce. Insomma, caro Garberoglio, nella pratica è sempre bastato un niente, magari essere risultati allergici, quando si era bebé, alla maglietta in autarchico e fascistissimo «lanital», per poter poi affermare di aver manifestato in tal modo una prisca, ma aperta, palese avversione nei confronti del regime e delle sue realizzazioni. Come d’altronde è sempre stato sufficiente aver gridato «Abbasso il Duce!» quando il Duce stava a testa in giù a Piazzale Loreto per finire inquadrati nella valorosa falange dell'antifascismo militante.

Potremmo anche parlare di come molti si sono guadagnati i galloni di membro della Resistenza (Oscar Luigi Scalfaro, ad esempio, non impedendo a un gruppo di partigiani di trascorrere la notte in un locale appartenente alla parrocchia. Nient’altro risulta agli atti) e raccontarne delle belle. Ma sarebbe come sparare sulla Croce Rossa, e non sta bene farlo.

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