Gli antirazzisti che si aggrappano alle trombette

Caro Granzotto, gli zingari sono di nuovo al centro della cronaca per l’iniziativa di Sarkozy e per l’incendio nel campo nomadi romano. Ne è seguito il regolare ampio e articolato dibattito che come al solito non porta a niente se non a ribadire con fermezza che gli zingari vanno chiamati rom, che abbiamo molto da imparare dalla loro cultura, che essendo nomadi non conoscono il concetto di lavoro, che sempre a causa della loro cultura loro non possono integrarsi e quindi siamo noi che dobbiamo integrarci con loro e infine che qualsiasi giudizio negativo o perfino di critica nei confronti dei rom e del loro modo di agire è da ritenersi manifestazione razzista. Quest’ultimo predominante assunto non è un infame ricatto morale? Possibile che per non passare da razzista mi debbano piacere gli zingari che invece non amo avere attorno proprio per via della loro «cultura»?
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Anch’io - e chissà quanti altri come me - non nutro una gran simpatia per gli zingari e non perché ritengo che appartengano a una razza inferiore, che poi è il succo del razzismo. Nella versione zigana sono eccellenti suonatori di violino, in quella circense superbi domatori di cavalli e mi dicono che le loro donne siano imbattibili nel leggere la mano. Tutte cose egregie, dunque, tutte eccellenze che non faccio fatica a riconoscere. Ma ancorché talentuosi, nessuno può obbligarmi ad averli cari e meno che mai a «condividere», magari «dialogando» o «confrontandomi», la loro cultura. Io, a esempio, non sono portato all’accattonaggio con un grappolo di marmocchi al collo. Colpa mia che non ne colgo la sublime valenza culturale, ma è così, non ci posso fare niente. «Eh no bello mio», ribattono a questo punto i Sommi Sacerdoti della società multietnica, «devi fare, devi fare perché il non apprezzare, non gradire leccandosi i baffi la cultura rom è una abominevole manifestazione razzista». Perché a questo siamo, caro Silvestrini: ossessionati dal fantasma del razzismo come i Torquemada lo erano dalle streghe, preda a un delirio politicamente corretto, col loro eccesso di zelo quei tipi hanno finito per banalizzare il concetto di razzismo rendendolo quisquilia e rendendosi ridicoli.
Come avrà sentito, la Uefa ha bandito dagli stadi europei la vuvuzela, la micidiale trombetta che fornì la colonna sonora dei mondiali di calcio. E ora non si metta a ridere, caro Silvestrini, ma sappia che La Stampa ha voluto vedere, nella decisione dell’Uefa, una volontà razzista. Di più: il ritorno all’apartheid. «Apartheid Uefa: niente vuvuzela, siamo europei» titolava infatti - in prima pagina - il quotidiano torinese. Tirando poi in ballo - stiamo parlando di una trombetta - la Storia con la maiuscola e Nelson Mandela per categoricamente affermare che vietando a un tifoso italiano o francese di suonare la vuvuzela, l’Uefa («il sinedrio del calcio europeo») rimetterebbe in atto la segregazione razziale dei sudafricani. Infame manovra che secondo l’estensore del pezzo, Cesare Martinetti, è confermata da questa motivazione del sinedrio: «Le vuvuzela non appartengono alla cultura europea, ma sono un tocco di colore locale e folklore che ha diritto di esprimersi nel contesto specifico del Sud Africa». Eccolo il rigurgito razzista, chiosa l’Acchiapparazzista: «le vuvuzela sarebbero roba da bingo bongo, non da evoluti europei». Ma siamo matti? Che le vuvuzela non appartengano alla nostra cultura è un fatto: i triccheballacche, sì, i putipù e le scetavaiasse anche, ma le vuvuzela no.

Cosa c’è di male, cosa c’è di razzista nell’ammetterlo? Dov’è il bingobonghismo, dove l’apartheid? «Coraggio - conclude impavido Martinetti chiamando la società civile a far quadrato contro l’apartheid trombettistica - ci tocca persino fare il tifo per le vuvuzela». Be’, se le cose stanno in questi termini io mi astengo. Preferisco passare da razzista piuttosto che da fesso.

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