Tra gli anziani della Shura minacciati dai talebani: «È un rischio ma voteremo»

Bala BalukArrivano. Barbe bianche e turbanti candidi, sciame d’ovatta e anziana saggezza nella polvere antica di Bala Baluk. Entrano tra guardie afghane, sentinelle italiane, sguardi americani. Sono gli anziani, i capi villaggio, le autorità tribali. Da loro dipende l’ultima parola, la disponibilità dei civili, il voto di un distretto che non è proprio un bel posticino. I 140 metri per 40 della base italiana di Bala Baluk con gli annessi e connessi d’esercito afghano e polizia addestrata dagli americani sono uno dei pochi luoghi a prova di talebani. Dentro questo ex aeroporto sovietico appoggiato alla ring road, la sterminata distesa d’asfalto anello di congiunzione tra i principali centri del Paese, il capitano Gianluca Simonelli, comandante della 6ª compagnia Grifi del 187° Reggimento della Folgore, attende gli anziani. Da questa shura, da questa assemblea alla presenza di capi di polizia, esercito e comandanti italiani e americani dipende la riuscita delle presidenziali del 20 agosto in questo rovente distretto della caldissima provincia di Farah.
«Qui tra minacce talebane e disagi da affrontare per arrivare alle urne c’è il rischio che nessuno voti. Quaggiù - riconosce il capitano Simonelli - si prevedevano 30 sezioni, ma al massimo possiamo difenderne tre, una l’apriremo nella base, le altre due nelle guarnigioni di polizia della valle di Zamardan e lungo il fiume Farah Rud». Per votare, insomma, oltre a sfidare i talebani bisognerà anche sobbarcarsi svariati chilometri di viaggio. «Oggi tutto dipende dal nostro amico colonnello Hamkhar – ammette il capitano -: se convince gli anziani si vota, se no salta tutto». Dentro la sala il colonnello Mohammad Zaher Hamkhar, un ex mujaheddin antisovietico al comando del 2° Kandak, un battaglione addestrato dalla Folgore, ce la mette tutta. «Il futuro dipende solo da voi, siate coraggiosi, ignorate le minacce, convincete la gente a votare e avrete elettricità, acqua, scuole. Oggi le donne non possono esser curate perché mancano i medici femmina, se voterete avremo le dottoresse per curare le vostre figlie e le vostre mogli». Le parole rimbombano nella sala, 44 mani si lisciano i menti lanuginosi, sgranano i rosari, annodano i turbanti, gonfiano di tabacco guance e narici. I 44 occhi squadrano il colonnello, il capitano dei rangers americano Chris Potter e il capitano Simonelli. Mezz’ora dopo, quando l’ultimo, ottimo argomento del colonnello si consuma in raucedine le 22 barbe d’ovatta restano immobili come candide stalattiti, pensierosi come un oracolo alla sentenza.
Il capitano Romanelli fa gli scongiuri. «Qui la sponda sud del fiume Farah Rud, la zona più verde e fertile è coltivata ad oppio e corrisponde con le zone talebane, lì ci sono Dizak, Shanjang, Sheik Ik Lala, Kal Qala, Qary Ye Sirak, Siah Jangal, i villaggi dell’area rossa di Shiwan dove la mia compagnia ha combattuto più di una battaglia e dove la polizia afghana neanche entra». Haji Maluk lo fa subito capire. «Per noi votare è un rischio, quelli sono arrivati nel villaggio dicendoci di non votare, voi ci fate sempre le stesse promesse, ma fin qui abbiamo visto assai poco, per arrivare ai seggi c’è tanta strada da fare, chi accompagnerà vecchi e donne, chi ci garantirà la sicurezza nei giorni a venire? Chi garantisce che non ci lascerete soli?». Un’altra barba grigia chiede «scuole, acqua, elettricità, sicurezza». Un baritono urla «almeno mandateci i pullman». Uno strillare rauco impreca «non abbiamo neppure le schede».
Già, le schede. Il capitano Simonelli allarga le braccia. «Quello è proprio un rebus, qui non c’è stato un censimento, nessuno sa dove il governo le ha distribuite». Mentre la rissa d’opinioni si stempera nel silenzio, il 68enne Haji Allahluddin Khan s’aggiusta il turbante e scodella la sentenza. Quella di grande anziano e suprema autorità. «Per noi è difficile, rischioso e faticoso. Noi speriamo che i seggi siano molti più di tre, ma anche se ne farete uno solo voteremo comunque. Questo governo ha asfaltato la ring road, ci ha dato la strada, per arrivare a Kabul ci volevano due giorni oggi bastano sei ore, quindi stiamo meglio di prima. Verremo a votare anche se ci sarà un solo seggio».
In quella chiusa c’è tutta l’inattesa fiducia per il presidente Hamid Karzai, l’uomo più odiato dai talebani, il più discusso dagli occidentali dopo cinque anni di corruzione, ruberie e malgoverno. Qui poco conta. Qui la voce finale ha già scelto l’ordine costituito e la shura s’adegua. Persino Ghulam Shah, grande capo di Warria, un villaggio del rinato ordine talebano dove i soldati del capitano Simonelli non sono mai riusciti a metter piede, canta le lodi del presidente, garantisce il voto delle proprie genti. Simonelli tira il fiato, Mohammed Daud comandante locale dell’Nds, i servizi segreti afghani, non sembra altrettanto fiducioso. «In questa provincia i talebani hanno un governatore ombra che si chiama Said Ayub.

A Sheiwan, a 25 chilometri da qui, ieri sono arrivati con i megafoni e hanno promesso di farla pagare a chiunque andrà a votare. Lì sono in almeno 300, a comandarli c’è un ex di Guantanamo, gli americani lo hanno liberato e lui è tornato a far guai. Lì dopo il voto chi girerà con il dito sporco d’inchiostro rischia di non tornare a casa vivo».

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