Corre l’anno 1940. Il 22 giugno la Francia firma la resa, e Parigi si piega al passo cadenzato della Wehrmacht. Hitler passeggia trionfante lungo gli Champs-Élysées, mentre in Europa cala un silenzio di ferro. Solo la Gran Bretagna resiste, sola come un’isola di vento e orgoglio. Da lì Winston Churchill parla alla nazione e promette che mai, mai, il popolo inglese si arrenderà. Intanto, nei cieli sopra Londra, i motori dei bombardieri tedeschi iniziano a rombare. È l’inizio della Battaglia d’Inghilterra.
L’11 ottobre 1940, una di quelle bombe cade a sud-ovest della capitale, a Wimbledon. Non è un obiettivo strategico, ma finisce per colpire il luogo più simbolico del tempo libero britannico: l’All England Lawn Tennis Club. Cinque ordigni sventrano il Centre Court, distruggendo oltre 1.200 posti a sedere. È come se un lampo avesse cancellato, in un istante, l’immagine di signore con cappellini bianchi e cavalieri con pantaloncini immacolati. Il tempio del tennis diventa un campo di rovine.
Da tempo, in verità, la guerra aveva già preso possesso di quei prati verdi. Già nel 1939 il club era stato requisito come base d’appoggio dell’esercito britannico. Le sale eleganti, dove si sfogliavano giornali e si sorseggiava tè, diventano dormitori e mense. Gli spogliatoi si trasformano in infermerie. Nei parcheggi e sui prati un tempo immacolati pascolano animali: maiali, oche, conigli. Sulle aiuole di Church Road non risuonano più i colpi di racchetta, ma i muggiti delle mucche e il fischio delle sirene antiaeree.
Londra, di notte, brucia. Le luci sono spente, i quartieri bombardati, le famiglie stipate nei rifugi. Il tennis, con la sua compostezza aristocratica, è solo un lontano ricordo, un’eco di un’epoca che sembra dissolta. Tra il 1940 e il 1945 l’All England Club viene colpito dodici volte. Ogni volta le macerie aumentano: la tribuna tra il Royal Box e la sala stampa scompare, le finestre esplodono, la cucina si annerisce di fumo. Persino alcuni membri del Club, tra cui il principe Giorgio, perdono la vita sotto i bombardamenti. La guerra non risparmia nessuno, nemmeno chi aveva fatto del fair play una religione.

Eppure, dentro quella devastazione, resta qualcosa. Un’idea, un testardo istinto di ricominciare. Quando nel 1945 le ostilità si spengono e l’Europa riscopre la luce, un uomo prende in mano le sorti del club: il colonnello Duncan MacAulay, ufficiale britannico e appassionato di tennis. È lui a organizzare, in un’Inghilterra ancora ferita, un torneo per i soldati alleati di stanza in Europa. È un segno, un modo per dire che la guerra è finita e la vita può tornare a giocare. Il destino vuole che, proprio il giorno dopo l’inizio del torneo, il 2 settembre 1945, il Giappone firmi la resa. La Seconda guerra mondiale è finita davvero.
Le strade di Londra si riempiono di gente. Migliaia di persone sfilano, cantano, si abbracciano. La pace ha un suono nuovo: quello delle racchette che, lentamente, tornano a colpire la pallina sui campi verdi. MacAulay dirige i lavori di ricostruzione dell’impianto, tra mattoni scheggiati e tribune sventrate. L’erba, come l’anima britannica, ricresce piano ma con ostinazione.
Nel 1946, dopo sei anni di silenzio, Wimbledon rinasce. Il Centre Court è ancora ferito, ma il pubblico torna sugli spalti. Le tribune portano ancora i segni delle schegge, ma le palline rimbalzano di nuovo. In finale trionfano Yvon Petra e Pauline Betz, simboli di una normalità riconquistata. Il torneo inglese si disputa prima del Roland Garros, diventando il secondo Slam della stagione. Ma più che un torneo, è una rinascita.

Sotto quel cielo finalmente sereno, il pubblico applaude non solo ai campioni, ma a se stesso. Al coraggio di un popolo che ha saputo trasformare le macerie in campo da gioco, la paura in speranza. Il tennis, lo sport più silenzioso del mondo, diventa il dialetto della pace.
E Wimbledon, risorto dal buio dei bombardamenti, travalica la dimensione sportiva, diventando memoria di un’Europa che ha saputo ripartire, con una racchetta stretta in pungo e lo sguardo sollevato verso il futuro.