Cultura e Spettacoli

ARBASINO Fratelli di Grecia e di Turchia

Si avvicina l’estate del 1960 e Alberto Arbasino è indeciso tra due strade, entrambe molto invitanti: rimanere a Roma, dove quell’anno si terranno le Olimpiadi, oppure partire per la Grecia. L’esito della scelta è così incerto da restare tale anche dopo che una decisione è stata presa: se infatti sfogliamo le edizioni del ’76 e del ’93 di Fratelli d’Italia, opera ampiamente autobiografica dello scrittore lombardo nonché uno dei grandi libri del ’900, scopriamo che in un caso i personaggi del romanzo restano a Roma («fuochi artificiali grandiosissimi per tutta la sera, su questi colli della povera Roma vecchi e nuovi; e un ricevimento per quindicimila persone quasi tutti zozzoni al Pincio bloccato dal traffico») mentre nell’altro prendono il traghetto («scioccamente siamo fuggiti a Olimpia prevedendo Roma invasa dai peggiori turisti in gruppo»). Un lento sdoganamento, insomma, ma l’esitazione, con tutta evidenza, è indizio di impulsi contrastanti. Sospetto confermato dalla sensazione che la Grecia sia relativamente estranea agli itinerari arbasiniani, ritenuta non particolarmente attraente sia perché sguarnita di succulenti festival, vernici e «prime», sia perché troppo vicina per essere considerata una meta esotica.
Nel 1960 però un’esca mondana c’era, e di che calibro: Maria Callas avrebbe cantato per la prima volta la Norma in Argolide, ad Epidauro. Chiunque in Europa ne avesse la possibilità «aveva giurato da mesi di non perdersela, questa occasione di assistere a uno dei più grandi sortilegi del mondo moderno: in un remoto angolo della Grecia piena di sassi, una notte di luna appare una maga, e in una cerimonia di stregoneria rotocalchesca commuove i popoli». Una volta arrivati lì, se ne approfitterà per veder recitare Eschilo ed Euripide in greco, visitare il Partenone e Olimpia, navigare verso le bianche isole delle Cicladi e infine approdare ad una Turchia che senza darlo a vedere, quasi senza pathos, farà vacillare ogni convinzione.
Leggendo questo recentissimo Dall’Ellade a Bisanzio (Adelphi, pagg. 164, euro 12) si ha l’impressione che la terra greca, sotto i piedi dell’autore, scotti, e la ragione per cui ciò accade è facilmente intuibile. Il mondo classico da secoli spaccia modelli che si vogliono eterni e intoccabili. I miti per esempio esigono che li si prenda sul serio, ma appena si dà loro corda diventano ricattatori, oltranzisti, prepotenti. Ce n’è abbastanza perché l’illuminista Arbasino, che del mito ha sempre preferito l’aspetto giocoso, lo Spiel, se ne difenda con l’ironia e a tratti persino con la goliardia, e metta in atto una ritorsione consistente nel trattare la colonna autentica, il tempio prototipico e il dramma canonico come se fossero contraffazioni o simulacri di bassa lega. Ad Atene nei mercati si vendono icone false, quindi: «Diffidare dell’icona: spesso costosissima, manipolata su tavole invecchiate nei forni a legna...». A teatro (perché «bisogna sobbarcarsi la soirée tragica...») «l’implacabile Paxinou arriva subito, in cuffia viola e mèches d’argento. Come una Wally Toscanini fuggita da un coiffeur demente». Purtroppo è vietato alzarsi e andarsene prima che lo spettacolo, che dura due ore ed è a dir poco monocorde, termini. Per cui «qui, come alle Università e ai convegni, bisogna prender posto vicinissimo alla porta, per poter scivolar via quando non se ne può più della catarsi». Nei musei «la sensazione più commentata è che the best sia spesso altrove; e infatti lo si sarà visto a Roma e a Napoli, al British Museum e al Louvre». Anche le statue fanno storcere il naso: «ma come avranno fatto a trovare chàrisma in uno Zeus tracagnotto di Dodona che per lanciare un fulmine sembra portarsi un cefalo all’orecchio?».
Alla strage delle illusioni sopravvive soltanto la Callas, che in barba all’unico nubifragio in Epidauro del decennio «tira fuori il suo leggendario coraggio, nell’affrontare difficoltà pazzesche e sopracuti evitabili, pur di vincere clamorosamente». E soprattutto la tappa dedicata all’isola, sacra in un tono tutto pagano, di Delo. È solo per Delo e, a sorpresa, per la Turchia che Arbasino conduce sul proscenio la voce vasta e notturna che di solito, per pudore e giusta diffidenza verso il sublime, tiene a bada sotto la trapunta multicolore della sua verve. «Poi ci si volta, si vedono i leoni lì in fila, e questi incredibili straordinari quattro o cinque animali di marmo bianco, che allungano il torso snello e il muso stravolto sul campo delle rovine, dànno veramente l’idea dell’urlo del dio-belva cinico e bruto sopra il paesaggio calpestato, percosso, distrutto». Il posto gli sembra «disabitato e morto, museale». Atroce capovolgimento e vero trionfo postumo della morte, se si pensa che l’isola, quando divenne sede di giochi, era stata «purificata»: nel 426 a.C. tutte le tombe e le ossa erano state rimosse mentre un decreto panellenico vietava di nascere e morire a Delo, e partorienti e moribondi venivano trasportati subito altrove. La vita, almeno lì, doveva essere assoluta: una nazione senza confini.
L’ultima tappa del viaggio è, come si diceva, sorprendente; perché dopo la sconfessione e il ridimensionamento con annesso dileggio della Grecia, Arbasino si concede un lieto epilogo turco, non lasciandosi sfuggire la possibilità di allestire, ovviamente, una piccola turquerie. Nel senso di vedere nei sudditi del Sultano il riflesso della nostra anima occidentale, decadente e illogica. È «Bisanzio irrazionale, che annovera Yeats e Proust e Musil tra i suoi cittadini onorari». A Istanbul ci si sente a casa propria e il panorama sullo stretto del Bosforo «da qualunque parte lo si guardi, è probabilmente il più bello del mondo; il muso della Sublime Porta coi suoi giardini proprio sulla punta sporge avanti in un mare che dopo le cinque del pomeriggio e fino almeno alle sette non è più né blu né verde, ma innegabilmente tutto d’oro».
Nessun appello dunque per i concittadini di Socrate, né un’operazione malandrina simile a quella condotta, con Super-Eliogabalo, per la Roma tardo-imperiale, esaltata per il politeismo dei valori e l’allegra e criminale dissolutezza.

I filosofi dell’agorà spiritosi e antidogmatici, gli arconti pazzi e i geometri pronti a sbandierare l’irrazionalità della diagonale del quadrato rimangono a bocca asciutta: nel paradiso terrestre di Arbasino la penisola del Mediterraneo che ci è più prossima, per colpevole eccesso di serietà, non merita di entrare.

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