Cronaca locale

«Arrivai su un barcone, ora ho un futuro»

I racconti degli stranieri che fanno la coda per il permesso di soggiorno: «Semplificate la vita di chi non vive di espedienti»

Da poco in Italia, da una vita in coda. Prima sul mezzo che li avrebbe portati verso il sogno di una vita, poi sulla porta del capo per il colloquio di lavoro, fuori dalla Questura per il permesso di soggiorno, infine negli uffici dell’Anagrafe.
Per gli stranieri «regolari» di Milano l’attesa è ormai una placida abitudine. Pure in una normalissima mattina d’agosto. La sala al piano terra di via Larga 12 è piena di volti e di colori della pelle, di ambizioni e speranza. E di emozione. Come quella che prova Omar B., 35 anni, senegalese. Dall’89 vive tra Milano e dintorni, fa il magazziniere. Tiene per mano la moglie conosciuta in Africa e racconta: «Dopo 17 anni ho ottenuto la cittadinanza, ma avete troppa burocrazia - si sfoga -. Mancano pochi giorni al giuramento ma mi sentivo italiano già da un pezzo!». Diverso il caso di Clarissa, signora moldava arrivata da soli quindici giorni e un tantino spaesata. «Ho raggiunto con la bimba mio marito, che sta qui da 6 anni. La cittadinanza? Ci stiamo pensando». Babor è originario del Bangladesh, milanese da 11 anni e impiegato in una cooperativa di viale Monza. «Non ho ancora capito come funziona la nuova legge, ma tornerò a informarmi». Un futuro da italiano è nei piani anche di Noel P. e consorte, cingalesi. I tempi lo consentono. «Abito a Milano da 15 anni, faccio il pasticcere. Si sta bene in Italia, a parte la trafila per rinnovare il permesso», riferisce. Poi denuncia: «Come è possibile che da voi i clandestini sono più assistiti dei regolari? Mi piacerebbe che il governo si impegnasse a semplificare la vita di chi lavora, non di chi campa di espedienti». Lorena A., 29 anni, è filippina e lavora come domestica a casa di milanesi. «Sono venuta a iscrivermi all’anagrafe. Per il momento prendo la residenza, per la cittadinanza si vedrà».
Lo sguardo che rimbalza dai documenti da compilare al numero rosso sopra di lei, Zeynep E. attende il turno allo sportello. «Sono turca, mi fermo a Milano per un po’ - spiega -. Sono arrivata tre anni fa con una borsa di studio. Ho deciso di imparare bene l’italiano e mi sono iscritta ad un istituto privato. Il sogno è aprire una linea di abbigliamento tutta mia. Se ci riesco, chiederò la cittadinanza». Guarda e riguarda le foto tessera delle sue tre figlie Elton B. Albanese, la sua è una storia a lieto fine. «Proprio in questi giorni, nel ’91, sbarcai a Brindisi con una barcona che voi definite di “disperati” - ricorda -. Avevo 17 anni, e in effetti non c’era altra scelta». I centri di accoglienza, i volontari, un treno per Milano. Ora gestisce un negozio di telefonia. La nazionalità italiana l’ha chiesta quattro anni fa, ma poi la pratica si è arenata, senza capire come. «Ci riproverò col nuovo decreto, sto preparando di nuovo i documenti». Elton ha le idee chiare sulla questione legalità. «Se non trovi lavoro devi tornare in Albania. Non puoi rimanere qui a rubare.

Con tutti i delinquenti che ci sono in giro, io non lascerei le mie bambine sole per strada neanche un minuto».

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