Le opere create con l’Ia? Quella virale non è vera arte

I social sono invasi da "meme" che imitano gli stili delle avanguardie. Senza però essere rivoluzionari

Le opere create con l’Ia? Quella virale non è vera arte

Ogni giorno, sui social, dibattono gli entusiasti dell’Ia contro i detrattori dell’Ia. Non tanto degli utilizzatori dell’Ia in campo medico e scientifico, piuttosto artistico, in un occidente in cui già sono tutti artisti, dai partecipanti al Grande Fratello ai vari «creator online». A un certo punto sono diventati tutti fumettisti dello Studio Ghibli, tutti Hayao Miyazaki, Instagram sommersa da autoritratti in stile Ghibli realizzati dall’Ia. Nel frattempo ogni immagine che vediamo è: Sarà vera? Sarà falsa? Sarah Connor?

In fondo inserisci un prompt in ChatGpt, e viene fuori l’immagine che vuoi (più o meno). La moda Miyazaki è finita, ma ce ne sono molte altre, in genere per creare meme, e i memisti anche loro si credono artisti, mentre il fenomeno del meme è esattamente il contrario dell’opera d’arte, sebbene possa far sentire un artista chi non ha nessun talento (sentitici, tanto non cambia niente per nessuno). Tant’è che la ghiblizzazione è durata meno di una settimana, ma lo Studio Ghibli è sempre lì. Ma torniamo all’arte. Il crearla con qualsiasi mezzo non è neppure una novità: da molti decenni, anche senza Ia, non so quanti si siano fatti i propri ritratti in stile Andy Warhol, il più copiato. Lo stesso Andy Warhol spesso neppure ci metteva mano, lo facevano gli assistenti. Non era difficile farsi un Andy Warhol da soli, ma bastava a sentirsi Andy Warhol? Ancora prima: Marcel Duchamp, inventore del readymade, la rivoluzione dell’arte contemporanea, dove un oggetto comune scelto da un artista diventa un’opera d’arte per sua scelta (attenzione: prima però devi essere un artista, e far sì che entri in un museo, altrimenti sei solo un pirla), disse: «Avrei potuto fare un readymade al minuto per arricchirmi, ma ne ho realizzati poco più di una trentina in tutta la vita».

Questo perché l’arte è originalità, ma anche scardinamento dei cliché. Il meme, l’immagine generata dall’Ia che diventa virale sta all’arte come il gene agli organismi biologici (leggere Dawkins): la genialità umana (di pochi) ha sempre vinto sugli input della genetica (della maggior parte della nostra specie, e di tutte le altre specie animali: i geni sostanzialmente ti dicono di sopravvivere per riprodurti). Il meme vale artisticamente quanto una barzelletta: fa ridere, non si sa chi abbia inventato quel particolare meme, e non importa, non ci importa chi, vale il tempo di un sorriso, di una satira anonima, di qualcosa da copiare (ancora copiare) e incollare (la società del copia e incolla). Che diventa virale perché appunto è come un virus, senza cervello, come non lo ha chi lo scambia per arte. Significativo che diventare virali sia diventato un obiettivo degli esseri umani da social.

Tempo fa su Instagram sono stato taggato dall’amico esperto di Ia Gianluigi Ballarani, che mi ha scritto pubblicamente (e polemicamente, benissimo): «Negli anni Dieci del Novecento, Marcel Duchamp prese un orinatoio, lo firmò R. Mutt, e lo espose come opera d’arte. Non aveva creato un oggetto, ma aveva trasformato il suo significato. Perché? Perché il contesto cambia il senso. Duchamp non stava copiando, stava sovvertendo. Chi oggi si scandalizza per le immagini generate con l’Ia in stile Ghibli, si scandalizza per la sola esistenza dell’arte concettuale, dei meme, e dell’idea che tutto può diventare arte se cambia il punto di vista».

Enorme fraintendimento dell’arte. Meme e arte concettuale non c’entrano niente gli uni con gli altri, e il readymade, proprio reggendosi su un’idea forte, non è nato per essere un meme (oltre che essere riconosciuto come rivoluzione quarant’anni dopo dalle neoavanguardie, tant’è che ogni readymade originale è andato perduto). Avrei potuto rispondere che artisti si nasce, critici si diventa, ma di meme si muore. Conformismo è avere appunto la stessa forma, conformarsi: con l’Ia o senza Ia non cambia niente, il punto è cosa passa, cosa diventa, cosa si sedimenta, cosa resta. Altrimenti anche senza Ia si finisce con la casalinga di Voghera tanto citata da Alberto Arbasino che davanti a un taglio di Lucio Fontana pensa: «Avrei potuto farlo anche io». Non per altro la setta degli artisti del «faccio tutto con l’Ia» frequenta vernissage che sembrano più eventi per il lancio di un profumo, e i suoi membri sdilinquiscono di fronte a trovate che gli sembrano modernissime e che dal punto di vista storico-artistico risalgono alle avanguardie (anni Dieci) e alle neoavanguardie (anni Sessanta) seguite dalla Pop Art. Non hanno neppure idea, quando parlano di «concettuale », che il concettuale è appunto concetto, idea, e se li collocassimo a fine Ottocento sarebbero stati fotografi, perché quella era la nuova tecnologia, mentre gli artisti hanno abbandonato il realismo e da lì in poi impressionismo, espressionismo, futurismo, cubismo, dada, new dada, arte concettuale, arte povera, pop art, e tutto ciò che ha rivoluzionato i fondamenti e la fruizione dell’arte. Invece sapete cos’è un meme virale? La Gioconda, davanti a cui si accalcano i turisti perché è famosa, senza sapere niente di Leonardo se non quello che gli viene spiegato delle audioguide, destinato a essere dimenticato. Incluso il selfie davanti alla Monna Lisa, poveraccia, se avesse un mitra farebbe una strage.

È per questo che essere dei veri artisti è sempre stato difficile, per pochi. È per questo che l’arte moderna nasce con gli Impressionisti, che esposero al Salon des Refusés, rifiutati dal Salon ufficiale. Non volevano essere virali, dovevano cambiare quello che oggi chiameremmo il mainstream. Lo stesso, lo dico da scrittore, vale per la scrittura: puoi uniformarti, o puoi, se puoi, creare qualcosa che solo tu puoi fare, e non era prevista né prevedibile, e non si fa creare dal lettore, ma crea il suo lettore. Proust non sarebbe stato Proust se avesse pensato di sé altrimenti. Puoi anche dire a ChatGpt di scrivere un testo in stile Proust, ma non sarai Proust, né tu né ChatGpt.

Invece, al buon Ballarani, ho pubblicamente risposto così: «Da una parte ci sono gli scandalizzati, dall’altra gli entusiasti.

Tutti stanno postando tutto in stile Ghibli. Io non vedo niente di artistico se non un giochino divertente, e un giochino per tutti non è niente di importante per nessuno. Non scomoderei Duchamp, al massimo Giochi Preziosi, bro ».

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