Artista, non critica d'arte. Ecco la vera Lea Vergine

Il meglio di sé lo dava nella dimensione umana Inseguendo ovunque la bellezza del vivere

Artista, non critica d'arte. Ecco la vera Lea Vergine

L'arte non è una faccenda di persone per bene è il titolo perfetto dell'ultimo libro (una conversazione con Chiara Gatti) di Lea Vergine, nel quale esce pienamente la personalità di una donna, in primis, per la quale è riduttivo il ruolo di critica d'arte, che ha esercitato con un magistero così alto, in un fuoco che brucia ogni imperfezione; ed è giusto invece evocare quello di artista. Anche il necrologio irriverente di Pasquale Leccese suggerisce questo status: «di qualsiasi cosa si tratti sono contro Lea Vergine». Un modo per intendere che essa era stata viva, e aveva determinato una reazione umana. Raramente accade con le fumose parole di un critico.

E proprio l'interferenza della vita è la caratteristica di questa donna che entrò nell'arte con la sua bellezza fisica, fino al paradosso che lei stessa racconta: «A una conferenza sugli artisti napoletani contemporanei, qualcuno scrisse che venivano solo per le mie gambe. E io che ero battagliera, giovane e incosciente, anziché avere stile e lasciare cadere, anzi ringraziare, feci causa. In tribunale il giudice volle vedere le gambe. E sentenziò: Che sarà mai, sono gambe normali. Sono d'accordo. Ottenni 300mila lire, una pacchia: era la fine degli anni '50. A 23 anni andai da Roberto Pane, patrono di tutto il mondo culturale a Napoli, grande studioso di architettura e scopritore di Gaudí, perché volevo pubblicare il mio primo libro, sui pittori napoletani contemporanei. E lui: Ma quanti anni ha? Non sa quanto tempo ho dovuto aspettare io. E lei pretende che il suo libro esca, solo perché ha la presentazione di quel coglione di Argan. Disse proprio così».

Qui comincia l'equivoco che poi ho rimproverato, con tutta la mia attività di critico, a critici come Lea Vergine, così ciechi davanti all'arte da giudicare, come lei fece nel 2006, definendo «peggior artista» Lucian Freud. Da lì derivò una polemica che non riguardava Lea Vergine, ma un'intera generazione che intese l'arte come un mondo chiuso riservato a pochi, in un cerchio magico entro cui stavano soltanto loro: Fontana, Boetti, Turcato, Kounellis, Paolini, Penone, Castellani. I professionisti dell'arte, gli artisti obbligatori. Nella sua mente non c'era spazio per altri, né incertezze o dubbi; ma, essendo una donna intelligente e intuitiva, quando usciva da questo segmento specialistico odontoiatrico, degli artisti prescritti (sempre loro erano, e non altri), mostrava di cercare una dimensione umana autentica fino al nichilismo, nella perfetta contraddizione della sua vita di ragazza napoletana, proiettata in un mondo popolato di artisti che diventavano luoghi comuni. Poteva così restare colpita da Cioran, incrociato a Parigi e a cui riconosceva di «esser modestissimo, mite, ridanciano, spiritosissimo. Certo era molto fragile».

Non ho imparato niente da lei come critica, ma ne ho apprezzato il temperamento, la difesa sindacale della creatività femminile nella importante mostra «L'altra metà dell'avanguardia» che mi sembrò così essenziale da meritare di onorarla e commemorarla con una mostra che allestii a palazzo Reale a Milano, quando ero assessore alla cultura: «L'arte delle donne». Non capì, non volle capire, non apprezzò, non diede segnali. Era un'altra manifestazione di vita, in absentia. E anche per furore originario. Lo aveva scritto: «non si è nati invano alle falde di un vulcano». E lo spiegò: «Me lo disse Arturo Schwarz. In effetti le persone nate sotto un vulcano hanno delle bizzarrie, una certa fascinazione di spazi e colori. Il più grande cantore di Napoli è Raffaele La Capria». E anche in questo caso mostrò intuizione e intelligenza degli uomini, citando due persone come Schwarz e La Capria, molto lontani dagli artisti che amava o credeva di amare, per la loro profonda autenticità umana. Di La Capria aveva capito la dimensione dello spirito napoletano, tra mito e leggenda: «Ha un rapporto straordinario col mare e la natura di Napoli. Lui abitava a Palazzo Donn'Anna, un luogo, secondo le leggende, di eccidi e di spettri, e dalla sua finestra si tuffava direttamente in acqua. Un sogno».

Questa sua femminile intuizione degli uomini era insuperabile, bastava che non si occupasse di artisti. Lo ha capito bene Marco Belpoliti: «La bellezza è il grande tema della vita di Lea Vergine, è ciò che fa di lei una delle critiche d'arte più interessanti degli ultimi cinquant'anni in Italia. Il culto della bellezza, non solo della propria; anche di quella, perché Lea Vergine è bella oltre che elegante. Della bellezza in generale. La bellezza del vivere, che ha per lei un nome preciso: Napoli, la sua città d'origine, con la sua bellezza struggente così coinvolta con il suo opposto da non poterne fare a meno. A Napoli anche la bruttezza conosce sempre una parvenza di bellezza, e ne custodisce il segreto in modo geloso, come testimoniano le sue scrittrici e i suoi scrittori». E ne era stata consapevole la stessa Lea Vergine, scrivendo: «L'arte è il superfluo. E quello che ci serve, per essere un po' felici o meno infelici è il superfluo. Non può utilizzarla, l'arte, nella vita. Arte e vita sì, nel senso che ti ci dedichi a quella cosa, ma non è che l'arte ti possa aiutare». E in questa vita di artista, trascorsa come sottospecie di critica d'arte in una continua illusione, sono le considerazioni sulla vita, le battute, la visione napoletana del mondo a renderla speciale, come un dandy. Alla domanda: «che cosa la diverte?» risponde: «Tre cose. Ballare il tango, pescare con la lenza e giocare a poker. Ma purtroppo, dopo una operazione a cuore aperto e con mio marito malato...».

Soltanto il tempo può ridurre il piacere, rallentare il tempo, mortificare la bellezza. Ed è questo che Lea Vergine ha vissuto, come un trauma, negli anni della maturità, quando non era più possibile identificarla con le sue belle gambe. Così se n'è andata la critica che era partita da un riconoscimento della sua bellezza prima che degli artisti mitologici, nei testi fondamentali: Il corpo come linguaggio (La «Body art» e storie simili), fino a L'altra metà dell'avanguardia 1910-1940.

Ha segnato con la sua opera critica un passaggio del costume, l'avvento, attraverso le grandi personalità dell'avanguardia storica, del mondo femminile nell'arte, con una rivoluzione, anche estetica, per cui lei è stata essenziale come un sismografo. Non ci accompagnerà la sua voce per capire o interpretare un'artista, ma ci resterà nella mente il suo volto per capire un passaggio d'epoca.

Chiuso con una consapevolezza: l'arte non è faccenda di persone per bene.

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