Artisti e curatori nel panico: non ci son più le feste cafone

Alle feste dell’arte non ci si diverte più. Troppo formali e ingessate, spacciate come palcoscenico esclusivo per inziati e meritevoli, sono invece il regno dove scorrazzano imbucati, malvestiti e di greve aspetto. Mancano le belle e giovani donne, abbondano gay di mezz’età (poco fascinosi pure loro), rivedi sempre le stesse facce con cui hai poco da dirti, se non qualche commento a denti stretti sulla mostra, prevalentemente positivo visto che stai mangiando gratis (seppur poco).
Ma dove sono finiti quei meravigliosi party degli anni ’80, quando arrivava trafelato Gianni De Michelis con improbabile codazzo, e giù tutti a ballare, ubriacarsi, scivolare nella trasgressiva promiscuità? E i mirabolanti ricevimenti privati, tutti «sex, drugs and r’n’r» descritti da Bret Easton Ellis in Glamorama? L’estetica della coolness ha inibito la sfera del desiderio, l’arte è diventata fenomeno sociale, difficile fidanzarsi o ipotizzare una storia clandestina in un convegno di critici, collezionisti e pittori: tutti sanno tutto di tutti. L’ultima devastante mania è il finger food, porzioni di cibo non precisato distribuito in modiche quantità che finiscono in fretta e non tolgono l’appetito. Da quando i food designer hanno sostituito i cuochi di una volta e i dj set in stile chill-out hanno preso il posto della disco-music, la fighetteria del party è inversamente proporzionale alla scarsità di vivande e alla tediosità della colonna sonora. Poveri camerieri con vassoi in precario equilibrio vengono assaltati da piranha da buffet, professionisti dello scrocco, immancabili presenzialisti del dopo mostra. Come difendersi dal bidone in agguato, che ti promette una cena esclusiva e invece sai già che dovrai fare a spintoni per un’insalata di pasta fredda, come è successo al party dell’ultima Artissima torinese, servito da Eataly, autentico paradiso dei gourmet, dove era impossibile anche solo avvicinarsi alla mescita del vino? Semplicemente rinunciandovi. D’accordo, c’è crisi, dunque la cena placée dei tempi d’oro è un pallido ricordo, se anche all’opening dell’ultima mostra del cinema è andata in scena la caccia disperata alle residue fette di torta, dribblando un Lino Banfi e circumnavigando una Jasmine Trinca alla quale non era nemmeno stato riservato un tavolo vip.
Meglio è andata giovedì sera, al ricevimento fiorentino dopo le lunghe file per ammirare il teschio di diamanti di Damien Hirst. A far gli onori di casa il sindaco Renzi con Martina Mondadori e l’assessore alla Cultura Giuliano da Empoli che il perfido Bonito Oliva ha soprannominato Giuliano da Bulgari. Scoraggiante l’aperitivo al freddo, con lo stesso artista imbacuccato, andatosene presto alla chetichella. Il pasto è servito in un salone riscaldato, all’impiedi ma con possibilità di sedersi. Era giovedì ma non c’erano gnocchi e neanche gnocche.

Parzialmente disertato dal jet set internazionale, si sono visti Vicente Todolì, ex direttore della Tate di Londra, Patrizia Sandretto, Pepi Marchetti di Gagosian, Ginevra Elkann in forma strepitosa. Serata noiosa ma almeno breve, animata dalla veloce comparsa di Vittorio Sgarbi, molto critico nei confronti dell’operazione. È di Francesco Bonami la miglior battuta: «Non vedo l’ora di andarmene a dormire».

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