Ashwinder, dalla Borsa alla cucina tandoor

«Quando passai al settore cambi lavoravo giorno e notte»

Ashwinder in sanscrito vuol dire «Dio dei cavalli» o «colui che vince i cavalli». Significato cui ha reso omaggio Ashwinder Singh con una bella dimostrazione di salto da una cavalcatura all'altra. Per dodici anni è stato broker finanziario con lo sguardo schizzato e diviso su quattro monitor contemporaneamente. Poi ha mollato tutto e ha aperto un ristorante indiano, il «Tara», in via Cirillo 16. Ashwinder Singh è un sikh ma non porta il turbante e la barba, e nemmeno, figurarsi, la spada. «Quando arrivai a Milano nel 1985 non sapevo dove andare a pregare. Non esisteva un “gurudwara”, un tempio sikh, in città. Mio zio allora mi disse che c'era una bella chiesa, il Duomo, e che potevo pregare lì. In fondo si trattava sempre di un luogo sacro».
E ci va ancora in chiesa?
«A Natale, alla messa di mezzanotte. Ho assimilato certi valori e cerco di utilizzarli nel contesto sikh».
Come arrivò a Milano?
«Mio zio era un industriale sposato con una italiana e venne in città per trattare l'acquisto di una acciaieria. Ci furono lunghe trattative, poi decise di rilevare una fabbrica a Pittsburgh invitandomi a seguirlo, mai io nel frattempo avevo frequentato un master per laureati in discipline economiche dei Paesi in via di sviluppo organizzato dalla Fondazione Mazzotta».
Quindi fu così che entrò in carriera...
«Prima con una società privata di brokeraggio. Poi alla centrale fondi del Gruppo Ambroveneto, come gestore fino al 1998».
Le piaceva il lavoro?
«Molto, si trattava di una sfida stimolante, la remunerazione era buona. Ma mi pesava non avere tempo per la famiglia. Quando passai al settore cambi lavoravo giorno e notte».
Allora si stufò...
«Una ulteriore crescita professionale divenne difficile e mi rendevo conto che stavo andando alla deriva. Volevo rallentare il ritmo e fare qualcosa che fosse collegato al mio Paese».
Da piazza Affari alla cucina tandoor?
«Un cambio enorme che mi faceva paura. Un amico, un ingegnere che aveva aperto il primo ristorante indiano a Milano, mi fece capire che potevo applicare le mie conoscenze economiche alla gestione del ristorante. Così nacque il “Sukriya”, che, in seguito alla rottura della società, è divenuto il “Tara”».
È il nome di una divinità?
«In lingua colloquiale vuol dire “stella”. Ma è anche uno degli aspetti della sposa di Shiva».
Sia sincero: non è pentito di aver cambiato vita?
«Per nulla. Tutte le volte che i miei ex colleghi broker si ritrovano al “Tara” per una serata insieme, mi dicono che anche loro vorrebbero mollare tutto. Gestire un ristorante è faticoso, ma la mente è salva».
E qual è il miglior ristorante indiano di Milano?
(Risata di Singh).
Escluso il «Tara», ovviamente...
«I ristoranti autenticamente indiani più o meno si equivalgono. Tutti proponiamo lo stile del Punjab, del nord dell'India, il più adatto a un palato occidentale».
Se dovesse prendere un elemento dalla cultura indiana e trapiantarlo a Milano?
«L'umanità, il ritmo di vita più lento. E il rispetto per gli anziani».
Come vive Ashwinder Singh a Milano?
«Bene, anche se preferirebbe la Liguria.

Mio zio aveva una casa a Sarzana e a me piaceva girare fra Lerici e Tellaro durante le vacanze. Portavamo il turbante e gli abiti tradizionali quando in Italia non si era mai visto un sikh. Erano i tempi di Sandokan in tv, così ci fermavano per strada per avere l'autografo. Indimenticabile».

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