Tra assolutismo e nichilismo

Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito al progressivo e irreversibile sgretolarsi di molte certezze ideologiche che avevano imperversato negli anni Sessanta e Settanta. È venuta meno, soprattutto a sinistra, l’idea di una linea temporale della storia intesa come risolvimento continuo e ininterrotto del passato nel futuro, come processo qualitativamente accumulativo, come svolgimento irreversibile che va dal male al bene. Un’idea che rifletteva l’universo mentale di tutti coloro che avevano creduto che la storia fosse portatrice di un movimento universale spingente da sinistra a destra, tale da relegare quest’ultima in un angolo, per poi dissolverla del tutto. Erano credenti convinti di possedere la giusta visione della marcia inarrestabile del progresso.
Questo immaginario ha avuto come suo esatto pendant una concezione naïf della realtà storico-umana. Il paradigma dell’ideologia, infatti, ridisegnava uno spartiacque decisivo all’interno della modernità tra un prima e un dopo. Il processo storico era dislocato “geograficamente” fra una destra, espressione del passato - arretratezza, conservazione, chiusura -, e una sinistra espressione del futuro - avanzamento, novità, apertura. L’homo ideologicus non era interessato a sapere se le cose erano vere o erano false, se erano giuste o se erano sbagliate, ma solo se erano progressive o reazionarie.
Le «dure repliche della storia» - per dirla con Norberto Bobbio - hanno invece dimostrato tutto il semplicismo storico-filosofico di questa concezione. Basti pensare a tutti i conflitti etnico-religiosi degli ultimi quindici anni. Riportiamo qui due immagini poetico-letterarie che valgono molto di più di tante riflessioni filosofiche. Così Robert Musil: «Il cammino della storia non è quello di una palla di biliardo, che segue una inflessibile legge causale; somiglia piuttosto a quello di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade, e qui è sviato da un’ombra, là da un gruppo di persone o dallo spettacolo di una piazza barocca, e infine giunge in un luogo che non conosceva e dove non desiderava andare». E così, lapidariamente, Eugenio Montale: «la storia non procede/né recede, si sposta di binario/e la sua direzione non è nell’orario». In conclusione la storia non ha alcuna direzione e (forse) alcun senso. Il suo casuale accadere si dispiega come un susseguirsi di fatti privi di un finalistico incremento di valori. Cioè il contrario di quanto appariva dall’inganno prospettico dell’ideologia progressista.
Alla constatazione che il processo storico non ha una direzione volta ad assegnare un fine prestabilito all’azione umana sono giunti ormai molti pensatori contemporanei, i quali, giustamente, hanno ridimensionato alquanto il prometeismo politico e ideologico dei decenni precedenti. Se non che a questa conclusione è subentrata, per contro, la teorizzazione di un pensiero debole che, nel sottolineare i limiti della ragione, del razionalismo e della scienza, ha propagato un sentire scettico che si è imposto come una nuova visione del mondo. Siamo caduti così in un altro conformismo: il conformismo del relativismo.
Ora se per relativismo si intende il riconoscimento del pluralismo delle fedi e dei valori all’interno di un quadro normativo dato dallo Stato di diritto, dove ognuno è legittimato a perseguire i propri fini, purché non intralci quelli altrui, non c’è dubbio che questo relativismo deve essere difeso a spada tratta. Esso, infatti, è il Dna della civiltà liberale e dello stesso Occidente. Se, invece, per relativismo si deve intendere l’idea acritica che tutto, appunto perché relativo, si equivale, allora non c’è dubbio che assistiamo all’insignificanza dei valori e alla perdita netta della loro importanza. In questo senso la valenza nichilistica del relativismo è innegabile. Sorge dunque una domanda decisiva: come è possibile mantenere integra la libertà insita nel relativismo, evitando che questo vada verso la deriva del nichilismo?
È questa, in sostanza, la sfida teorica raccolta da due filosofi contemporanei, Dario Antiseri e Giulio Giorello, che in nome di una comune fede nella libertà, hanno costruito un limpido dialogo sui temi fondamentali del relativismo e della libertà stessa (Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, con una postfazione di Silvano Tagliagambe, Bompiani). L’interesse del confronto è dato dal fatto che gli argomenti trattati sono di grande rilevanza e perché i due autori sono, per molti versi, del tutto antitetici: Antiseri è un filosofo cattolico e Giorello è un matematico e un filosofo che ama definirsi «ateo protestante». Il terreno di incontro è quello del riconoscimento del valore comune del pluralismo e della laicità, intesi come rifiuto di verità dogmatiche, siano esse religiose, filosofiche, politiche o sociali. Li unisce, inoltre, la comune rinuncia a tutte quelle filosofie che, assegnando in qualche modo alla storia fini trascendenti e collettivi, finiscono per sollevare i singoli individui dalle proprie dirette responsabilità etiche e politiche. Un libro, dunque, che interviene nel grande dibattito sul significato e sui limiti della democrazia e del liberalismo, in cui a confrontarsi sono, in un serrato intreccio, la scienza, la Chiesa, la fede in Dio e la libertà d’espressione liberata da ogni pretesa di assolutismo.
Ridotta all’osso, la tesi di Giorello è quella di un libertario che afferma le ragioni irriducibili dell’individuo e il suo diritto di sbagliare, poiché, comunque, nessuna verità è in grado di trascenderlo. Per suffragare la sua tesi Giorello non esita a citare, facendola propria, la considerazione di Benedetto XVI che nella Spe salvi (n.14) rileva giustamente che «la libertà rimane sempre libertà, anche per il male». E ciò perché nessuno può pensare per te e agire al tuo posto. Infatti, «se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata - buona - condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla buone strutture». Il che, appunto, è quanto dire che il bene riposa soltanto nella libera coscienza degli individui. Tesi naturalmente questa, che Giorello porta al suo estremo risolvendola poi contro lo stesso Ratzinger.
Antiseri si trova d’accordo con Giorello sulla necessità di rivendicare il metodo della libertà quale criterio di rispetto di ogni credo e di ogni teoria. Si deve infatti avere la consapevolezza che nulla è fissato ab aeterno e che, pertanto, solo la libera e incessante ricerca in ogni campo della vita intellettuale permette di «aggiustare il tiro» verso ulteriori verità, intese, però, sempre come un traguardo provvisorio, rivedibile e superabile («la ricerca non ha fine», affermava Karl Popper). Antiseri rivendica la sua fede cattolica, osservando, con ragione, che proprio perché l’uomo «non è in grado di proporre valori assoluti razionalmente dimostrabili, che l’umana conoscenza è sempre parziale e fallibile, incapace di costruire degli assoluti terrestri», si apre lo spazio per una scelta di fede.

Insomma proprio il relativismo conferma la giustezza del metodo della libertà, la quale permette ad ognuno di scegliere quei valori che più gli sono congeniali.
Naturalmente, aggiungiamo noi, solo se la stessa libertà viene intesa come un valore non relativo.

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