Cronaca locale

«Un attentato batteriologico? È solo uno scenario da film»

Il responsabile dell’unità di infettivologia: «Una bomba che diffonda un virus richiederebbe laboratori militari»

«Un attentato batteriologico? È solo uno scenario da film»

Stefania Malacrida

Bio-terrorismo. Scenari apocalittici. Nubi batteriologiche disperse nel cielo sopra Milano. E sotto, quartieri evacuati, scuole utilizzate come Lazzaretti. È solo un’ipotesi fanta-horror, un mondo parallelo apprezzato dai cinefili amanti del genere. Ma all'ospedale Sacco c'è chi ha il compito di pensarlo come reale. La clinica funge da quartier generale per il Centro Nord in caso di attacchi biologici. Qui ha sede l’unità di crisi voluta dal Governo dopo l'11 settembre 2001. E qui gli esperti tracciano l’identikit del «bacillo perfetto», quello che farebbe gola a Bin Laden. «Dev’essere incurabile - spiega il dottor Fabio Franzetti, responsabile dell’Unità semplice di infettivologia -, ma anche facilmente coltivabile e trasportabile. E poi vaporizzabile o associabile ad un esplosivo». Il dottore passa in rassegna con serenità scientifica i più micidiali agenti patogeni. «Il campo si restringe a cinque o sei: l’antrace, qualche virus da febbre emorragica, la tossina da botulino. Ma farne un’arma - rassicura Franzetti - non è una cosa affatto semplice. Presuppone laboratori e un’organizzazione militare potente». Insomma, il terrorismo biologico al momento è più un soggetto cinematografico che altro. Eppure, molto vicini alla fantascienza appaiono gli equipaggiamenti usati dagli esperti per far fronte alle emergenze. Le maschere antigas sono un’anticaglia a confronto. Al Sacco si usano scafandri sigillati a copertura totale del peso di 20 chili, con applicato sul fianco un sofisticato filtro per il riciclo dell'aria. E non è che l’inizio. Esiste tutta una scala di allerta con al vertice l'inespugnabile «P4», la «Protezione 4» del laboratorio diagnostico: il bunker antibatteriologico dove virus e batteri, microscopio alla mano, vengono guardati in faccia. Qui l'ossigeno proviene dall'esterno, e gli operatori lo respirano attraverso tubi attaccati alle pareti. Una specie di cordone ombelicale lungo una decina di metri, che permette l'autonomia di movimento indispensabile a maneggiare i bacilli, senza restarne infetti. Così funziona il reparto infettivologico dell'ospedale Sacco. Parola d'ordine: nessun contatto. Anche le autoambulanze sono state attrezzate in modo da impedire promiscuità tra malati e soccorritori. Strutture in parte già collaudate. Due casi di Sars, il test veloce per l’antrace, diagnosi di presunte febbri influenzali, rivelatisi poi falsi allarmi. L’ospedale Sacco ha vissuto di riflesso tutti i casi epidemiologici degli ultimi anni. «Sono quelli naturali - spiega il dottor Franzetti -, gli avvenimenti che ci prepariamo ad affrontare». Casi ridotti, circoscritti, di contagio naturale. Ma sempre con uno sguardo gettato a quella fetta di realtà che può superare la fantasia. A fine ottobre si terrà la prima esercitazione in caso di allarme bioterroristico. Centoventi le persone coinvolte. Medici, infermieri specializzati, operatori sociali. Ognuno con la sua tabella di marcia, scritta nero su bianco nei piani studiati con la Protezione civile e i ministeri di Sanità e Difesa.

Prove generali, in vista di un evento che si spera non si verifichi mai.

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