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Attentato a Damasco, forse è stato Assad

Di certo ha ucciso un sacco di gente. Tutto il resto è confuso, sfuggente, misterioso. La bomba esplosa ieri mattina ad un incrocio nel cuore di Damasco è solo l’ultimo, oscuro capitolo di una guerra civile dalle molte incognite. Le immagini della televisione siriana mostrano un autobus sventrato, scene di panico, sangue e brandelli umani sull’asfalto. Il regime promette «pugno duro contro i terroristi», forse anche preoccupato dall’appello lanciato su Al-Jazeera dal primo generale siriano passato coi ribelli. Mustafa Ahmad Al-Sheikh (che ha defezionato un mese fa) ha letto un messaggio rivolto ai soldati invitando loro a passare dalle parte dei manifestanti.
I resoconti ufficiali attribuiscono l’attentato a gruppi terroristici e riferiscono di almeno 25 morti e 44 feriti, in gran parte poliziotti. Nulla di molto diverso, insomma, dall’attentato del 23 dicembre. Allora un altro ordigno attribuito ad Al Qaida fece a pezzi 44 persone nei pressi di una sede dell’intelligence. Il fatto che, anche stavolta, la maggioranza delle vittime appartenga alle forze di sicurezza non basta a convincere l’opposizione. Anche stavolta i protagonisti della rivolta scaricano sul governo le responsabilità dell’attentato, chiedendo che «un comitato internazionale indipendente indaghi su questi crimini pianificati e messi in atto dal regime, perché quest’attentato è solo l’ultimo degli sporchi giochi messi in atto per distrarre dalle proteste».
Anche dietro al Consiglio Nazionale Siriano s’intrecciano, però, movimenti e progetti non proprio limpidi. Per capirlo basta leggere il documento «Aree Protette per la Siria» pubblicato dal sito internet dell’organizzazione. Il documento del Centro di Comunicazione e Ricerche Strategiche, un think tank gestito dalla diaspora siriana con sede a Londra, prefigura tutte le mosse per far scattare un intervento armato internazionale contro il regime di Assad. Il punto di partenza è la creazione sul territorio siriano di quelle «aree di sicurezza», proposte guarda caso da Francia e Turchia, in cui concentrare la popolazione delle aree ribelli. I passi più inquietanti sono quelli in cui si ipotizza una campagna aerea preventiva. «Le operazioni - suggerisce il documento scritto da un consigliere di Burhan Ghalioun, presidente del Consiglio Nazionale Siriano - potranno esser portate a termine da aerei francesi, britannici e turchi con il sostegno di Emirati arabi, Qatar e Giordania». Una replica rivista e corretta, insomma, della campagna di Libia. La domanda, a questo punto, è se il documento sia farina dell’opposizione siriana o non sia il frutto di assicurazioni fornite con eccessiva leggerezza da esponenti occidentali. Un intervento internazionale contro Damasco minaccia infatti d’innescare un conflitto di dimensioni incalcolabili.
Il regime siriano è oggi il naturale anello di congiunzione tra l’Iran, Hamas e Hezbollah. Grazie a quell’asse strategico Teheran arma e finanzia i due principali nemici d’Israele ed esercita la sua politica di potenza in tutto il Medio Oriente, sottraendo consensi ai regimi sunniti di Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi. L’ipotesi d’un intervento occidentale a fianco delle potenze sunnite minaccia di provocarne uno diretto dell’Iran pronto, pur di non perdere il caposaldo siriano, ad incendiare l’intero Medio Oriente causando non solo la chiusura di Hormuz, ma anche di Suez. Per far fuori il dittatore Bashar e far nascere un nuovo regime destinato con tutta probabilità a finire sotto il controllo dei Fratelli Musulmani l’Occidente dovrebbe sobbarcarsi, insomma, il rischio di una guerra all’Iran e di un blocco a tempo indeterminato delle principali forniture petrolifere.

Quanto basta per chiedersi se il gioco valga veramente la candela.

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