Attenti a cadere nell’abisso della «democratura»

PREDRAG MATVEJEVIC Confondere la civiltà europea con la civiltà universale è una tentazione ben nota. Dare ad una realtà concreta e contingente un significato quasi assoluto è un errore comune. Sarebbe più utile discutere delle aspettative e delle attese di una parte dell’Europa nei confronti dell’altra. Occorre, forse, innanzi tutto definire o chiarire alcuni concetti e termini.
Europa dell’Est è stata una designazione più politica e ideologica che geografica e culturale, imposta dalla Seconda guerra mondiale e dalla Guerra Fredda. Questo nome è diventato desueto. Viene sostituito da un altro, altrettanto impreciso: Europa centrale e orientale. L’Europa centrale comprende anche Paesi che - come l’Austria o la Svizzera - non sono stati assoggettati dai regimi dell’Est di tipo sovietico.
L’Altra Europa è anch’essa una nozione mal definita, forse di proposito. Che cos’è altro in questa parte dell’Europa e che cos’è europeo in questa alterità? Nessuno ha risposto a questa domanda, non so nemmeno se sia mai stata formulata. Se l’Altra Europa è una denominazione ambigua, la realtà cui si riferisce non lo è di meno. Oggi questa realtà la possiamo scorgere come è o come dovrebbe essere. La retorica si adatta a queste ambivalenze. La politica ne trae vantaggio. La retorica politica ne abusa.
Si tratta di pensare l’Europa prendendo in considerazione i valori della cultura e della civiltà che la caratterizzano. Ogni tentativo simile esordisce o si conclude con una domanda ad un tempo banale ed imprescindibile: «Quale Europa?». Sarebbe auspicabile che l’Europa odierna fosse meno eurocentrica di quella del passato, più aperta dell’Europa di ieri, meno egoista dell’«Europa delle nazioni», più Europa dei cittadini che si danno la mano e meno degli Stati che si sono fatti tante guerre fra loro. Sarebbe utopistico aspettarsi che diventasse, in un futuro prevedibile, più culturale che commerciale, più cosmopolita che comunitaria, più comprensiva che arrogante, più accogliente che orgogliosa. E legittimo chiedere quale sarebbe l’«altra Europa» che si trova di fronte a queste alternative. Le transizioni degli ex Paesi dell’Est durano molto più a lungo del previsto. Riescono soltanto eccezionalmente a diventare vere trasformazioni. (Occorre distinguere meglio queste due nozioni: la transizione è basata su ipotesi, la trasformazione è un risultato realizzato).
Il cattivo odore dell’ancien régime ristagna ancora in molte zone. Si tratta di una realtà che sembra già compiuta pur senza concludersi o raggiungere una forma accettabile. È una situazione difficile da sopportare e dalla quale non ci si riesce ad affrancare. Molti becchini si danno invano da fare, senza riuscire a sbarazzarsi delle spoglie. È un ruolo tutt’altro che gradevole.
Più di un regime proclama in modo ostentato la democrazia senza pervenire a fornirne un’apparenza appena credibile: tra passato e presente si determina uno iato, tra presente e avvenire si svolge l’ibrido incontro tra un auspicio di emancipazione e un residuo di assoggettamento. Da più di dieci anni, io chiamo questo non-luogo ambiguo con il nome di «democratura».
Vi si fanno spartizioni senza che rimanga granché da spartire. Si è creduto di conquistare il presente e non si riesce nemmeno ad avere ragione del passato. Vi nascono certe libertà senza che si sappia sempre cosa farne, rischiando di abusarne.

In questi Paesi è stato necessario difendere un patrimonio nazionale - ed oggi bisogna, in molti casi, difendersi da quello stesso patrimonio. Altrettanto dicasi per la memoria: si doveva salvaguardarla - ed essa sembra adesso voler punire quelli stessi che l’avevano salvata.

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