Ma attenzione a non cadere nello snobismo

Possiamo diventare Amleto, o anche Harry Potter, Achille, Tex Willer, o Gambadilegno, secondo caso, e necessità. Leggere infatti (e prima ancora scrivere) è un modo di ampliare la propria realtà, compresa la propria identità ufficiale, di solito insufficiente ad esprimere aspetti, personaggi, scenari, che abbiamo già dentro, e che lo scritto ci racconta, risvegliandoli. Ogni lettura (e scrittura) nasce per solito da un’eccedenza tra le nostre energie (e le immagini che le rappresentano), e la situazione della nostra vita «ufficiale» e pratica in quel momento. Oggi i ragazzini possono già essere quasi tutto: rapper o modelli, spacciatori o amanti di maestre; per questo leggono poco, a differenza di Vittorio Sermonti, l’autore di Il vizio di leggere, che lo faceva fin da piccolo. Prima della postmodernità, però, ci sono sempre state molte altre figure che si agitavano dentro di noi, scalpitando dietro all’identità del ragazzino studioso, dell’accurato dentista o del venditore di automobili. Di fronte a questo squilibrio, tra situazione reale e potenzialità immaginative, leggere storie, o bugiardini di farmaci o manuali su qualsiasi cosa, ci apre nuovi varchi, lascia ancora oggi scorrere scenari e desideri diversi.
La lettura, e la scrittura prima di lei, non sono però una malattia. Questa è la visione romantica della parola scritta come fonte di dannazione, e a volte di salvezza, «vizio» appunto, oppure virtù. Non che non sia così: solo che non è prerogativa del lettore-scrittore, come dimostra Sermonti con istruzioni per l’uso e scritti sui muri, liberando così la scrittura dalla prigione letteraria in cui gli intellettuali romantici e post la rinchiudono. Ogni essere umano, anche se non aprirà mai un libro, fa i conti con questa eccedenza, questo di più (e diverso) che lui ha dentro rispetto a quel che è in quel momento. Le risposte a questa sfida, di solito inconscia, percepita come inquietudine (magari tacitata con un caffè, o un’altra sigaretta) sono diverse. Qualcuno salta in bici, o in moto, altri lanciano in giro occhiate assassine, altri progettano viaggi in posti insensati.
Ci si crea altri mondi, altri possibili Io. Questa però non è malattia, è solo la vita umana. L’Io viene messo a fuoco, prende forma «by trial and errors», attraverso tentativi ed errori, come qualsiasi costruzione dell’uomo; oltretutto si sviluppa (o regredisce), insomma cambia, lungo l’intera vita. L’equilibrio psicologico e fisico (sempre provvisorio) si raggiunge attraverso questo continuo aggiustamento tra chi tu sei e cos’altro bolle nella tua pentola. La lettura-scrittura, come la moto, il sesso, la natura, il cinema, la musica e altre cose, è uno dei possibili strumenti di questo incessante lavorìo che in sé non è malato, anzi è del tutto vitale.
A mio figlio diciassettenne, che mi raccontava i tormenti dell’essersi mollato con la sua bella, ho buttato lì: «Forse potresti scriverne qualcosa, una poesia, qualche foglio di diario; per te». E lui: «ci avevo pensato». E cinque minuti dopo: «Sai, qualcosa su questa storia l’ho già scritto». Però contemporaneamente s’è fatto anche una trecciolina rasta sulla nuca, e un sacco d’altre cose che non c’entrano nulla con l’alfabeto.
Perché il pericolo non è (e Sermonti lo sa bene, tanto che ha smesso di dedicarsi alle letture dantesche) la lettura-scrittura, bensì la sua celebrazione come forma esclusiva e superiore di vita. Insomma, è vero che leggere apre mondi straordinari; ma qualcosa del genere accade anche camminando lungo un sentiero, o guardando negli occhi qualcuno. L’importante è ascoltare quell’eccedenza che si agita dentro di noi, quell’eccedenza di cui parlavano Georges Bataille, Ernst Jünger, Carl Gustav Jung (chiamandola con nomi fra loro diversi), e trasmetterla all’altro: che sia il lettore o la fidanzata, il cliente che si presenta allo sportello o il figlio quando si torna a casa dopo il lavoro.

La lettura può anche farci crescere, noi e chi ci sta intorno. A patto di non scambiarla con la verità, la bontà o altri valori assoluti. E magari dimenticare la sinfonia dei motori, la bellezza dei corpi, o il silenzio dei boschi.

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