Qual è lessenza della genovesità? È una domanda tipica di qualche filosofo medioevale, interessato al quid est? della realtà che ci circonda. Da valutare, quindi, secondo qualità e non quantità, a dispetto di quanto la scienza ci ha insegnato dopo Galileo. Ciononostante Mauro Bocci, che ricordo ai suoi esordi nella pagina culturale del Secolo XIX non esita a porsela, convinto evidentemente che nelle cose dello spirito lantica curiosità «essenzialistica» valga ancora qualcosa.
Diciamo subito che per Bocci la genovesità è reperibile solo attraverso la ricerca delle radici, quelle radici che Genova non ha cessato di affondare nella propria tradizione, anche dopo la fine della Repubblica aristocratica e la sua annessione (Bocci usa il termine Anschluss) al Piemonte sabaudo.
Anzi, se un elemento fortemente connotativo si può trovare nella lunga e documentata storia della città, è proprio il capitolo dedicato a questa annessione. Non voluta e non ancora, si può dire, pienamente accettata, stanti i rapporti assai più stretti che da tempo immemorabile legavano Genova a Milano. Quella Milano verso la quale, per tutto il tempo del siglo de lo Genoveses affluivano dal porto ligure uomini, ricchezze, idee.
Torino invece non era affatto la partner ideale. Era la capitale di uno stato che per tutto il Sei/Settecento era stato marginale nella storia della penisola. Uno stato di montanari e contadini, i cui re i genovesi sprezzantemente consideravano come una sorta di mandriani. Trovarseli ora a capo della città di Rubens e Van Dick, vedere lalbagia e la sdegnosa prepotenza di uomini dordine come lammiraglio De Geneys, che pretendevano dettar leggi fuori di casa propria, non poteva non suscitare naturale risentimento e volontà di rivolta.
Quella rivolta che, spontaneamente, esplose non appena le vicende nazionali ed internazionali lo permisero. Vale a dire allindomani della «fatal Novara», quando il Piemonte di Carlo Alberto, in ginocchio di fronte agli austriaci, non sembrava in grado di sedare eventuali insurrezioni interne. La città naturalmente colse loccasione ma fu unoccasione pagata a caro prezzo.
I bersaglieri di Lamarmora, infatti, trattarono gli uomini, ma soprattutto le donne genovesi così come avrebbero fatto i lanzichenecchi di Cecco Beppe. Li «croatarono» - per usare una celebre espressione dellAlizeri - lasciando ovunque lutti e scolpendo quel 1849 tra gli anni horribili della storia cittadina.
Ci volle poi il genio di Cavour, la sua intuizione, il suo fiuto per le potenzialità economiche ed imprenditoriali di Genova per propiziare lera degli Ansaldo e Ribattino. Vale a dire di una metropoli marinara ed industriale, che non avrebbe cessato di stupire il mondo sino allinizio degli anni Sessanta del Novecento. Cioè sino allavvento del mai abbastanza deprecato Centro - Sinistra, che Bocci rievoca invece con toni dellepopea.
Ma Genova deve la propria identità anche e soprattutto a quella sua anima religiosa, che pretese, alla fine del Seicento, di consacrarla a Maria Santissima. La Vergine innanzi a cui si inginocchiarono, nel corso del tempo, gli arcivescovi Magnasco e Tommaso Regio, sante figure di sacerdoti e di laici come Sturla, Frassinetti e Maurizio Dufour, un papa - quel Benedetto XV che disse no allinutile strage - e ultimo ma non ultimo quel Giuseppe Siri, del cui magistero, della cui pastorale, del cui calore umano sempre più la città avverte, in prospettiva, la mancanza.
Storia ricca, documentata, partecipata, questa di Mauro Bocci, anche se un po troppo schierata. Sarebbe pleonastico chiedere da quale parte.
Mauro Bocci, Lidentità genovese, De Ferrari, Genova 2005, pag. 381, euro 22,00.