"Air, La storia del grande salto": la storia pazzesca di Jordan, la Nike e quel primo personal branding

Nel 1984 la Nike riesce nell'impresa apparentemente impossibile di ingaggiare Magic Mike come testimonial: un'operazione di marketing rivoluzionaria

"Air, La storia del grande salto": la storia pazzesca di Jordan, la Nike e quel primo personal branding
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Reagan in sella alla Casa Bianca. Hulk Hogan che tritura avversari. Milioni di persone nel mondo che si arrovellano per sbrogliare un cubo colorato. Eppoi il Boss che intona Born in the Usa. E la Apple che rilascia il suo primo Macintosh. Praticamente quarant'anni fa. Citofonare al 1984 per chiedere. Se vivi negli States è un po' come essere appollaiati dentro a una gigantesca start up diffusa. Là fuori è tutto un fermento. Si iniziano a scrivere le prime leggi di un marketing inedito. Un estratto di arrivismo, ambizione e intuizioni irriverenti scuote il paese. Tutto scintillante, per carità. Però c'è anche ci se la passa peggio.

Oggi si farebbe fatica a crederci, ma la Nike arranca penosamemente alla spalle della Converse e di Adidas. L'azienda perde vagonate di milioni tintinnanti ogni anno ed ha praticamente abdicato alla sua presenza sul parquet più desiderabile, quello dell'NBA. I giocatori impazziscono per le scarpe con la stella laterale. I ragazzini - specie quelli di origine afro - sbavano per le sneakers dell'Adidas. A cosa ti aggrappi per resuscitare dalla catalessi competitiva? Servirebbe un miracolo. Ed un santo di turno che ci creda abbastanza da farlo succedere.

Appunto. "Air - La storia del grande salto", parla in fondo proprio di questo. Ben Affleck torna alla regia per raccontare questa vicenda di resurrezione improbabile, tanto intricato pareva il cammino. Nel film interpreta Phil Knight, uomo faro di Nike per cinquant'anni di fila. Al suo fianco - a dire il vero è lui il protagonista - c'è l'amico fidato Matt Damon, nei panni di Sonny Vaccaro, il manager ingaggiato da Phil proprio con l'intento di rimettersi in carreggiata.

Il draft del 1984 è un piatto succulento: Hakeem Olajuwon, Charles Barkley, John Stockton, Oscar Schmidt e poi lui, Michael Jordan. Che però sembra inarrivabile, dal momento che rifiuta categoricamente anche soltanto di incontrare la Nike. A Vaccaro - inesauribile scopritore di talenti - l'arduo compito di ribaltare questo destino avverso, appigliandosi anche e soprattutto alla famiglia di Michael. La madre - nel film la stratosferica Viola Davis - tiene le redini di tutto quanto. Persuasa lei, si può aprire un pertugio che conduce diritto al figlio. Da pungolare con la debordante morale americana: se ci credi veramente, ce la fai.

Il primo ad essere scettico in realtà è proprio Knight: "In America ci sono 200 milioni di persone che corrono, puntiamo a quel mercato, il basket è finito". Nemmeno per idea. La pallacanestro è viva e vegeta e Sonny Vaccaro è un acuto ministro dal portafoglio dimezzato. Quando riesce a convincere l'entourage che tutto il budget - 250 milioni di dollari - deve essere puntato su Jordan, anziché suddividerlo su quattro giocatori, fa touche. L'epifania arriva consumando il nastro di una vhs del 1992: è il tiro con cui Michael, allora diciannovenne, consegna il titolo a North Carolina nel match contro Georgetown. Il leader di quella squadra sarebbe qualcun altro, ma la palla a spicchi viene recapitata sui suoi polpastrelli prensili quando si tratta di decidere.

Il resto è la storia - dirompente - di una rivoluzione nel campo del marketing. "Una scarpa è soltanto una scarpa finché non la indossa mio figlio", ricorda la madre di Mike. Verità sacrosanta. Firmando con Converse e Adidas Jordan sarebbe uno dei tanti. Scegliere Nike significa diventare a tutti gli effetti il solo e unico. Il prescelto. L'uccello raro che per primo al mondo ha una scarpa personalizzata, l'Air Jordan, che porta inciso il suo cognome e l'effige del suo salto. L'unico per cui valga la pena pagare una multa stratosferica ad ogni partita, perché hai violato le regole Nba che impongono quantitativi di colore millimetrici per le scarpe. E l'unico per cui accettare di riconoscere royalties da milioni di dollari sulle vendite ad un giocatore, pur di averlo con se.

La storia che per eccellenza materializza il sogno americano. Sonny, leggermente sovrappeso, in monocromo beige e alle corde, si gioca tutto per un'idea e vince.

Insieme a Jordan - che nel film appare sempre come una lunghissima ombra, fertile intuizione - crea il primo personal branding del marketing moderno, surclassando per lunghi tratti la concorrenza. Il miglior tiro da tre di sempre per Nike.

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