Florencia, la matadora italiana che sfidò il mito dei toreri spagnoli

La prima corrida a 23 anni alla Maestranza. Ora vive a Siviglia e fa l’artista

Florencia, la matadora italiana che sfidò il mito dei toreri spagnoli

Nell’arena calpestata dal Toro Bravo de Lidia (razza bovina allevata solo per la corrida) il matador è sempre un «lui», mai una «lei». Eppure, qui a Siviglia, aleggia il mistero di un profumo femminile: un mix inebriante di zagara, arance, terra insanguinata e carne selvaggia. È la scia odorosa di Eva Florencia Bianchini, mujer de valor. Dolce e aspra. Come il suo amore per i tori che l’ha portata a sfidarli nella loro terra d’adozione, l’Andalusia. L’unica italiana che sia riuscita a farlo nel regno dell’eroe nazionale, Manolete. È l’alba degli anni ‘80 quando ha inizio l’impresa impossibile di Eva. È appena una ragazzina che va in Spagna con la famiglia. Sembra un banale viaggio turistico. Si trasformerà invece in qualcosa di epocale. Un’adolescente sui generis che viene rapita non dal flamenco ma dal fascino controverso della tauromachia. Scoperta che diventa ossessione. E quella domanda scomoda che martella le tempie: si può, allo stesso tempo, ammirare un toro; rispettarlo; esserne attratto e, alla fine, trafiggerlo a morte? Sì, si può. Anche se Eva una spiegazione logica non è ancora riuscita a darsela. Forse perché la risposta è celata in una piega nascosta dell’anima, difficile da svelare.

Per Florencia un’esplorazione introspettiva filosofica e mistica: «Il torero interpreta il ruolo del sacerdote di un’antica religione scaturita da leggi ataviche. Due dimensioni che si contrappongono: il destino della fragile esistenza umana di fronte alla forza primordiale della natura». Percorso infinito che conduce a labirinti misteriosi. Florencia li attraversa cambiando abito: deposte le vesti di torera, continua la missione indossando il camice della pittrice spruzzato di colori. Eva, che i tori li schivava per poi ucciderli a fil di lama, adesso li dipinge per condividerne la maestosità. I pennelli hanno sostituito le banderillas: attrezzi meno cruenti, preferiti da chi considera la corrida un rito barbaro. Non certo Eva, che toreava con la leggerezza della pittrice, e ora dipinge con l’eleganza della matadora. A cambiare è stato il teatro dell’azione: un tempo la muleta volteggiava sulla sabbia tinteggiata d’ocra dell’arena, oggi la mano vola sulla tela bianca. Frammenti di un sogno realizzato a metà. Tra rimpianti e amarezze. Per vivere di corride in Spagna ci vogliono tanti soldi ed Eva non li aveva; i toreri famosi sono ricchi e guadagnano molto (fino a 30 mila euro a esibizione) ma quelli poveri non vedono una lira, anzi devono pagare di tasca loro se vogliono scendere nell’arena. Ricordi descritti in un film del 2020, «Eva», ispirato proprio alla straordinaria avventura di Florencia. Nella prima parte la fuga, ancora minorenne, dall’amata Firenze (da qui il nome d’arte, Florencia) per tornare a Siviglia. I genitori chiedono aiuto alle forze dell’ordine. La polizia la rintracciano e la riportano a casa. Il tempo di compiere 18 anni, e Eva riparte per la Spagna. Questa volta né la famiglia né la polizia possono fermarla. Giovanissima il via alla carriera di torera contro il parere del mondo.

Tentano in ogni modo di farla desistere. Invano. Lei si fidanza con un matador che le insegna i trucchi del mestiere rimanendole accanto nei momenti difficili. Sacrifici, impegno, dolore, frustrazioni. Eva ne è consapevole, ma non si ferma. Le corna da schivare non sono solo quelle visibili dei tori, ma pure quelle invisibili di chi non crede che una donna possa diventare una torera. Ma Florencia gli sbatte in faccia che hanno torto: «Ci vuole molta disciplina fisica e psichica. Bisogna allenare corpo e mente per superare pregiudizi, paure e istinto naturale di conservazione. “La mente fría y el corazón caliente“».

Il momento clou a 23 anni, quando esordisce nella Maestranza di Siviglia (per la tauromachia l’equivalente del Santiago Bernabeu per il calcio), con tanto di uscita «por la puerta grande», onore riservato ai toreros che mandano il pubblico in visibilio. Applausi. L’estasi della gloria. Poi cala il silenzio. L’inferno paradisiaco della corrida ha un prezzo troppo alto per le limitate risorse finanziarie di Eva. Non ci saranno repliche trionfali. La realtà è «triste y solitaria». Ma Florancie - «novillera italiana más dura que un hombre», la definì El País - non lascia Siviglia. Si reinventa artista. Legata però ai libri di Hemingway «Fiesta», «Un’estate pericolosa», «Morte nel pomeriggio», perché sfogliarli ricrea magicamente la brezza violenta e romantica della sua corrida. Emozioni compensatrici di lacrime sgorgate dal pozzo delle incomprensioni: «Non ho mai avuto ripensamenti. Se tornassi indietro rifarei lo stesso cammino, pur sapendo le difficoltà e la sofferenza - racconta Eva a Maddalena Badalì che l’ha intervistata per la sua tesi di laurea dal titolo «L’altra tauromachia» -. In Italia mi sentivo incompresa, sola, nessuno comprendeva la mia afición. Evitavo di parlarne: mi chiamavano assassina, sadica, psicopatica; agli altri non piaceva entrare nella mia stanza piena di poster e foto di tori. I miei genitori mi mandarono per un tempo pure dallo psicologo. Poi, dopo qualche anno, quando ho cominciato a toreare in pubblico, si sono pian piano convinti anche loro che la tauromachia non è poi così crudele».

Il rosso non manca mai nei quadri di Florencia. Come sfondo una plaza, immancabilmente «de toros». In cui immergersi a las cinco de la tarde: l’ora della corrida e del «ferimento».

Con una dedica a Ignacio Sanchéz Mejías, il torero che il 13 agosto 1934 fu incornato a nell’arena di Manzanares (morì due giorni dopo di cancrena), e un pensiero a Federico Garcìa Lorca, il poeta che ne ha cantato l’agonia.
«Lamento» desesperado.

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