Hater e profili fake: come si rintraccia chi ti diffama online

Commenti denigratori, recensioni costruite ad arte, insinuazioni mirate e post virali sono strumenti ordinari di un'aggressione intenzionale e amplificata dagli algoritmi

Hater e profili fake: come si rintraccia chi ti diffama online

Oggi la distinzione tra identità reale e digitale è di fatto scomparsa ed è proprio questa sovrapposizione a rendere l’identità online il bersaglio ideale per chi intende colpire senza esporsi.

Commenti denigratori, recensioni costruite ad arte, insinuazioni mirate e post virali sono oggi strumenti ordinari di una pratica che ha assunto contorni precisi: la diffamazione social. Non è un fenomeno marginale, è una forma strutturata di aggressione alla reputazione, spesso messa in atto con fredda intenzionalità e amplificata dagli algoritmi delle piattaforme.

A rendere la situazione più complessa è l’anonimato apparente con cui molti autori si muovono attraverso profili fake, account appena creati, immagini di repertorio o nomi inventati, ma l’anonimato nel 2025 è molto meno solido di quanto si creda.

L’utente che, per fortuna o destrezza, riesce a superare tutti i controlli crede di essere ormai invincibile dietro la sua maschera virtuale, ma non è così.

Chi colpisce pensa di poterlo fare senza lasciare tracce ma le tracce ci sono sempre, la questione è saperle leggere e la tecnologia, oggi, consente di farlo in modo strutturato e legalmente sostenibile.

Un nome dietro ogni offesa: i metodi che identificano chi diffama

Le tecniche investigative utilizzate per identificare un autore anonimo di contenuti diffamatori si basano su un principio fondamentale: ogni azione digitale, per quanto camuffata, lascia una firma. Questa firma può essere ricostruita incrociando elementi attraverso tecniche di intelligence.

Secondo il Senior Osint Analyst G. Tarallo, le metodologie di OSINT (Open Source Intelligence) e SOCMINT (Social Media Intelligence) “non vanno confuse con una semplice ricerca su Google o la lettura distratta di un post. Si tratta di strumenti investigativi avanzati, impiegati per analizzare in profondità le tracce digitali lasciate da chi agisce sui social, anche sotto falso nome. Attraverso questi sistemi è possibile ricostruire cronologie di attività, rilevare pattern ricorrenti negli orari di pubblicazione, confrontare stili comunicativi, identificare nomi utente replicati su più piattaforme e incrociare dati geolocalizzati con contenuti condivisi. Persino un’immagine di profilo può diventare un indizio rivelatore, se collegata ad altri account tramite tecniche di reverse image search”.

Un’attività così strutturata è capace di trasformare segnali frammentari in un quadro coerente e costituisce una prova spendibile in sede legale; è necessario dunque che questa sia stata prodotta lecitamente nell’ambito di attività d’indagine conferite e operate nel pieno rispetto dei dettami normativi.

Il ruolo delle investigazioni digitali: non serve essere l'autorità giudiziaria

Molti credono che solo la Polizia Postale possa indagare su questi reati, in realtà una persona offesa può attivarsi anche attraverso investigatori privati che operano in collaborazione con studi legali. La normativa italiana prevede che, se debitamente documentate, le evidenze raccolte da soggetti terzi possano essere allegate a una denuncia o prodotte in sede civile.

Il compito di queste figure non è “scovare” chi ha offeso per poi vendicarsi, ma costruire un fascicolo probatorio solido, ricostruire il percorso digitale dell’offesa, certificare la persistenza del contenuto, identificarne la fonte e fornire una documentazione verificabile.

La diffamazione può essere sistematica

Non sempre si tratta di un singolo commento, ma ci sono casi in cui il discredito è orchestrato attraverso un gioco di account multipli, pagine satellite, gruppi privati, il tutto creato con l’unico scopo di denigrare una persona. In queste situazioni, le tecniche OSINT permettono di mappare l’intera rete dell’attacco: si identificano connessioni tra profili, si tracciano affinità sospette tra pagine diverse, si rilevano “copy pattern” tipici dei contenuti prodotti in serie.

Anche l’analisi dei dispositivi (se disponibile) e delle reti IP – quando autorizzata in sede giudiziaria – può portare a convergenze determinanti, ma nella fase preliminare la vera forza sta nella capacità di leggere la superficie, in ciò che l’autore crede irrilevante.

Quando un post diventa reato: cosa dice la legge

Nel diritto italiano, la reputazione è un bene giuridico tutelato. E la rete non è una zona grigia, ma un luogo pubblico a tutti gli effetti. Oggi l’orientamento normativo già espresso dalla suprema Corte di Cassazione è chiaro: la diffamazione consumata sui social integra un’aggravante prevista dal Codice penale. Questo risultato si è raggiunto facendo un’interpretazione estensiva in chiave moderna dell’aggravante prevista già legislativamente nell’ambito della diffamazione ex art. 595 cp: "Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico". Oggi i social network sono a tutti gli effetti mezzi di pubblicità ai sensi di questa norma.

Chi offende online non può contare sull’oblio. E chi è offeso ha oggi la possibilità concreta di reagire, con strumenti professionali e percorsi giuridici ben codificati. Sporgere querela è solo uno dei passi. Molte volte, la sola identificazione dell’autore – e la notifica del fascicolo ricostruito – è sufficiente per ottenere una rimozione, un risarcimento, o una cessazione immediata del comportamento lesivo.

Un problema culturale, non solo giudiziario

L’illusione di impunità digitale è ancora diffusa. Molti credono che, cambiando nome, piattaforma o stile, si possa continuare a offendere senza essere riconosciuti ma la rete, oggi, non dimentica e non perdona. Ogni dettaglio resta. Ogni traccia può essere letta.

Il reato di cyberbullismo è stato introdotto nel 2017 proprio per far fronte a una grave emergenza: difendere la dignità della persona, soprattutto quando viene calpestata nel contesto digitale, dove l’offesa può assumere forme virali, invasive e persistenti. La norma nasce per tutelare in particolare i minori, le vittime più esposte e vulnerabili, ma ha avuto il merito di accendere un faro su una dinamica ormai trasversale, che tocca ogni fascia d’età e non risparmia nessuno.

La vera sfida è far capire a tutti – anche a chi scrive in uno slancio d’odio – che l’identità digitale è una responsabilità reale. E che danneggiare quella altrui ha conseguenze, sempre più spesso, anche nella vita reale.

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