
La decisione del carcere torinese di attrezzare una «stanza dell'affettività» mi pare assurda e mi permetto di criticarla. Prima di tutto bisognerebbe avere il coraggio di chiamarla col suo nome «stanza del sesso», dato che sarebbe destinata a rapporti non certo platonici. Inoltre è assurdo definire i rapporti sessuali dei carcerati un «diritto costituzionale», come sostenuto dalla garante dei detenuti del Piemonte; è vero che la Corte costituzionale ha aperto la strada a questa novità, ma non sta certo scritto nella Costituzione che chi commette un reato possa tranquillamente beneficiare di «affetti»...
Sarebbe poi utile sapere se, oltre alle mogli o i mariti, si apriranno le porte della stanza anche a professioniste disposte a soddisfare le necessità biologiche dei detenuti.
Bruno Peiré
Caro Bruno,
ho letto la tua lettera sulla cosiddetta «stanza dell'affettività» nelle carceri torinesi e comprendo il tuo disappunto. Tuttavia, consentimi di dissentire profondamente, e lo faccio con lo spirito di chi, pur nella diversità di vedute, considera il confronto civile una delle più alte forme di rispetto. Tu la definisci «stanza del sesso», come se si trattasse di una concessione oscena, ma dimentichi che il termine affettività non è un eufemismo, bensì una realtà complessa, che riguarda non soltanto il rapporto tra coniugi, ma anche quello tra genitori e figli, tra fratelli, tra familiari che, pur non avendo commesso alcun reato, subiscono una pena collaterale. È bene ricordare che nelle carceri italiane vivono ogni giorno bambini nati da madri detenute, che non possono essere privati del contatto con un padre. È davvero questo che vogliamo chiamare scandalo? La nostra Costituzione, alla quale sono affezionato assai più che a certi rigurgiti punitivi, stabilisce che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Non a caso si parla di «rieducazione», non di «vendetta». E se è vero che chi ha commesso un reato deve pagare, è altrettanto vero che deve farlo in un contesto dignitoso, umano, civile, che gli consenta, se lo desidera, di ricostruirsi come persona e rientrare nella società.
Ebbene, se un detenuto mantiene un legame con la moglie, con i figli, con i genitori, con l'amore, con la tenerezza, è già meno solo. E un uomo meno solo è anche, potenzialmente, un uomo meno pericoloso, meno disperato, meno incline alla recidiva. Se ciò ti sembra poco, fidati: nelle carceri italiane, dove si muore due volte a settimana per suicidio, non lo è affatto. Il vero scandalo non sono certo le stanze dell'affettività. Lo scandalo sono le celle sovraffollate, l'assenza di acqua calda, i topi nei bagni, i letti a castello arrugginiti, i turni di aria ridotti, i detenuti stranieri ammassati senza mediazione culturale, la radicalizzazione islamista che cresce nel silenzio, i corsi scolastici inesistenti e la mancanza di psicologi nonché la carenza di agenti, agenti che vivono un disagio spaventoso sul posto di lavoro. Questo è il vero problema. Il nostro sistema giuridico non prevede né la tortura né la pena di morte. E credimi: togliere ogni affetto a un essere umano per anni è una forma di tortura.
Non per il condannato soltanto, ma anche per chi lo ama, pur senza aver fatto nulla di male.Chi è in carcere ha perso la libertà, non la dignità. E in una democrazia civile, che tale vuole restare, questo fa tutta la differenza del mondo.