L'ultimo post: quel bisogno di rendere social anche la morte

Il video di addio di un quindicenne che nel Trevigiano dedice di togliersi la vita diventa l’emblema di una tendenza crescente: la trasformazione del gesto estremo in contenuto da condividere su Instagram e Facebook. Una cultura che non solo espone il dolore, ma normalizza la condivisione dell’ultimo atto

L'ultimo post: quel bisogno di rendere social anche la morte
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Un quindicenne si è lanciato dal ponte di Vidor, nel Trevigiano, dopo aver pubblicato un video su Instagram in cui salutava gli amici: un messaggio breve, diretto, destinato a una platea digitale. Il video è stato visto, commentato, segnalato. In pochi minuti è diventato il suo "ultimo post". È un fatto di cronaca, ma anche un segnale di qualcosa che va oltre il singolo caso: l’idea che l’ultimo gesto, quello più personale e drammatico, possa essere comunicato come si comunica tutto il resto, attraverso un telefono e un social network.

L'ultimo post, dai casi internazionali ai trend emersi negli anni

La dinamica di questi “addii social” non è isolata. Già nel 2017 il New York Post parlava dei suicidi in diretta come di una “nuova norma disturbante”, raccontando casi di adolescenti americani che avevano scelto le piattaforme streaming per trasmettere il loro gesto finale. Da allora il fenomeno si è esteso: in diversi Paesi vengono registrati casi di giovani che pubblicano un video di addio, una diretta, o un messaggio finale pochi minuti prima del gesto. Le autorità sanitarie, negli Stati Uniti come in Europa, segnalano da anni che l’esposizione massiccia a contenuti legati al suicidio sui social incide sulla percezione del gesto e uno studio del 2019 ha evidenziato che un uso problamatico dei social network è associato a un aumento del rischio di compiere lo stesso gesto, soprattutto negli adolescenti.

Quando la morte diventa un contenuto social

Ma perché un adolescente sente il bisogno di filmare, annunciare e postare il proprio addio? Da un punto di vista sociologico, il gesto non è solo la conclusione di una sofferenza individuale, ma diventa un atto comunicativo. Del resto, la cultura digitale in cui crescono i più giovani è fondata sulla visibilità: si racconta la vita in tempo reale, si documentano emozioni e successi. Ma è sempre più diffuso anche il bisogno di condividere anche sconfitte e dolore. L’idea che anche l’ultimo atto debba essere “visto” si inserisce in questa stessa logica. Uno studio olandese del 2023 sottolinea che molti adolescenti che si sono suicidati avevano costruito un’identità online in cui il disagio diventa parte del racconto pubblico di sé.

La cultura digitale che normalizza l’ultimo atto

Il punto centrale è che la cultura digitale non è un semplice sfondo: è un ambiente che plasma linguaggi, comportamenti e forme del gesto. Un articolo del New Yorker del 2024 analizza proprio questo: la sovraesposizione ai contenuti emotivamente estremi che vengono condivisi, commentati, ricondivisi, contribuisce a normalizzare il suicidio come evento pubblico e scena. Uno studio pubblicato su Sociology of Health & Illness sottolinea come la visibilità digitale modifichi la percezione della morte: non più gesto privato, ma gesto “trasparente” da condividere con la comunità virtuale.

La cultura digitale, costruita sull’idea che tutto debba essere raccontato, mostrato e condiviso, non fa eccezioni nemmeno davanti alla morte. L’ultimo atto viene filmato come si filma una confessione, un litigio, un ricordo, un momento qualunque. Il ragazzo che si è gettato dal ponte nel Trevigiano, come altri prima di lui, non si limita a compiere il gesto: lo comunica. E, nel comunicarlo, lo rende socialmente visibile.

Il ruolo della platea digitale


Ogni post presuppone un destinatario. Nel caso dell’ultimo post, quel destinatario diventa parte del gesto stesso. Gli studi sui suicidi in live streaming mostrano un fenomeno inquietante: la presenza di una platea che compie reazioni eterogenee, dal tentativo di dissuasione fino a commenti di scherno o incoraggiamento. La presenza di un pubblico, dunque, anche quando silenziosa, modifica il gesto: lo rende performativo, osservato, potenzialmente imitabile.


Gli algoritmi che amplificano

Non meno importante il ruolo degli algoritmi. Alcune ricerche evidenziano come gli algoritmi tendano a proporre, a chi osserva contenuti legati al disagio, altri video simili, alimentando spirali rischiose. Del resto, la logica dell’engagement, che premia i contenuti più emotivi, rende la morte un contenuto che “funziona”: genera attenzione, commenti, shock, condivisioni. È l’esatto opposto della prevenzione.

Se la morte diventa social: i rischi

Il caso del ragazzo che si è gettato dal ponte nel Trvigiano mostra un cambiamento profondo: la morte non è più solo un eventi, ma una comunicazione.

Quando un adolescente pensa che l'ultimo gesto debba essere visto, registrato o pubblicato, è la cultura digitale a parlare attraverso di lui. Una cultura che ha trasformato la vita in contenuto e ora, sempre più spesso, trasforma in contenuto anche la fine della vita.

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